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Notte di comune pandemia, nel silenzio inconcepibile di fine marzo. Il lungomare delle tamerici e degli oleandri (ormai abbattuti) accoglie una leggera brezza di maestrale che rinfresca i pensieri. La Sirena ricorda un’antica leggenda narrata da un cantastorie che non aveva mai visto il mare. Quattro cani per strada (e i loro padroni), diceva un pianista di pianobar che avresti potuto far piangere ma non ci saresti riuscito. Piazza della Costituzione più triste che mai, giardino serrato e silente, privo di vita. Luci fioche e serrande abbassate, alcune per sempre, locali scomparsi, mentre la sera diventa sempre più notte. Là dove c’era il Bar Bristol, ritrovo di juventini e giocatori d’azzardo, un’agenzia di fidi bancari; non è la stessa cosa, pure per un interista che non ama giocare. I Portici, cimitero di lapidi spente, deserto di fondi sfitti, vortice di luoghi senz’anima. Via della Repubblica, priva di Vittadello e Semaforo Rosso a guardarsi in cagnesco, scomparso il Londi, un ricordo di Bar Principe e tanto silenzio. Via Lombroso, un tempo via Fragola, senza il sapore di vinile del Longinotti, il profumo di salame della Casa del Formaggio, le foto d’epoca in angolo con via Volta. Cinema Odeon, triste abbandono, chiuso con tavole di compensato, come se non dovesse riaprire antiche porte a vetro per accogliere spettatori e prime visioni. Corso Italia in notturno, terra di conquista per gabbiani affamati, animali dispersi e vaganti, disorientati da tanto sconforto. Libreria Coop espone Aldo Nove (un libro su Battiato), non manca Cazzullo, tra le tante vite di Dante. Almeno è illuminata, pensi. Almeno prova a dar segni di vita. Cinema Metropolitan – dopo Bar Cristallo, Bar Verdi (non posso chiamarlo in altro modo) e un Semaforo Rosso perduto – mostra cartelloni ricordo da ultimo spettacolo, cose di prima della guerra. Persino il Rivellino è sbarrato. Non passeranno, sembra dire Rinaldo Orsini dalla sommità della fortezza. Ma il pericolo non sono gli spagnoli.
Va da sé che avanzi, mascherina improvvisata con il bavero del giaccone alzato, superi Tonino e una pizza che più non profuma, Luca e l’enoteca dei ricordi, il Bar Nanni con le sedie accatastate, come i tuoi pensieri, solo che loro (le sedie) sono più in ordine. Duplice possibilità – come quando venivi con tuo padre – per scendere in piazza Bovio, ma oggi non fai la scelta del passato, non t’interessano le penne di gabbiano. Via Sant’Antonio ha luci troppo fioche, fotografia d’un film contemporaneo, triste e italiano, obbligata la strada principale, direzione panchine di marmo, dove puoi ammirare col poeta la meravigliosa e sconvolgente bellezza del creato. Un mare cristallino dove si specchia la luna lanciando riflessi in cielo mentre il fiore secco dell’agave spinosa si ripiega su se stesso e accarezza la scogliera. Il faro lampeggia, il mare resta attonito, senza paranze in canale.
Tra poco sarà coprifuoco. E tu puoi cercare di farcela a impadronirti di tanta bellezza, ma non ce la farai, così tanta bellezza non la catturerai. Non basta la tela d’un pittore, non serve lo scalpello d’un artista, inutili carta e penna, non vengono le parole, non ce la posson fare. Restano i gabbiani, facili da raccontare, proprio come il mare, ma non dipingono un cuore, non raccolgono cocci e pensieri.
Prendi la strada di Marina, davanti al Brulotto il vuoto, giri a destra per via Sferracavalli, ché i Canali non li vuoi vedere, custodiscono giorni migliori. Una salita penosa, dopo un obitorio condominio di mare, un liceo dissacrato lascerà il posto a palazzine e terrazze affacciate sul mare. Troppo tempo trascorso, forse meno ne dovrà passare, lungo strade di antiche sconfitte. Cittadella anfiteatro del niente, il palazzo d’una regina e i soliti gabbiani che attendono le luci del cinema all’aperto, i calici del Bar del Museo, le briciole degli avventori. Il bastione di Leonardo, l’angolo degli innamorati, dietro il pino abbattuto e la rete dove cadevano palloni del campino dei Frati, mentre in riva al mare, nel silenzio infinito, s’intuiscono ancora lo scoglietto e lo scoglio della morte. Non puoi trovare la granita artigianale, un poco oltre neppure La Sorgente e un gelato industriale, perduto senza scampo, tra piscina e spiaggia.
Salivoli, aspettami, farò la costa, c’è tanto mare, tra gli occhi tristi di pochi fantasmi. Prima di ammarare in piazza Lega, perdersi nella vista del Canaletto, scorgere una discesa a mare, tra palazzi di scogliera e palme nane, tamerici e acacie in cerca di fiori, profumo di salmastro e nicotina, latrare di cani e silenzio, costante irreale. Potresti raggiungere la spiaggia in un diluvio di alghe, ma non è tempo ancora di sognare, per il momento basta vivere, accettare modelli inconcepibili, un passo dai campioni e dalle mode.
Appena a casa cercherò un vinile, ci passerò un panno di velluto, lo poserò con cura sopra il piatto del passato. È il 1974, cari miei, adesso le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo o farle rimanere buoni amici come noi, mentre Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da tre ore il suo amore ballerina. A noi non piacciono questi dischi tristi, ma non li buttiamo, a qualche ospite potrebbero piacere, diceva un mio amico un sacco di anni fa. Si facevano le feste in casa, nel 1974, ma De André (uno sfigato che pubblicava per la Karim), Guccini (un barbuto che non gli andava bene niente) e De Gregori (un ragazzotto che incideva dischi a mezzo con Venditti) non li avresti potuti ballare. Adesso è più facile essere con loro. Basta divagare, siamo a casa, il giradischi l’ho venduto un po’ di tempo fa, ne resta uno a casa di mia madre, ma non funziona. Spotify non è la stesa cosa, non c’è nostalgia, manca la poesia, non scattano ricordi. Allora carta e penna, per favore, anche se tanta bellezza non la catturerai, non puoi farcela, c’è chi ha provato ma non c’è riuscito. Ti offenderesti se qualcuno ti chiamasse un tentativo. Tanto per restare in tema con certe canzoni del passato…
Tutte le foto © di Riccardo Marchionni