Quando prendi in mano Era bello il mio ragazzo, ti rendi conto subito che non è il solito libro. Non è solo una raccolta di canzoni o un semplice elenco di storie: è un viaggio lungo settant’anni dentro la vita, il sudore, il sacrificio e, purtroppo, la morte dei lavoratori italiani. Giuseppe Ciarallo non si limita a raccontare: costruisce una sorta di autobiografia corale, fatta di voci diverse, ognuna con la propria musica, il proprio stile, ma tutte unite da un filo doloroso che parla di incidenti, malattie e ingiustizie sul lavoro.
La forza del libro sta proprio qui: nelle canzoni che si intrecciano e si rispondono, dai testi di Domenico Modugno con Lu minaturi del 1954 fino alle parole più recenti di Paolo Jannacci e Stefano Massini in L’uomo nel lampo del 2024. Ogni pezzo è il frammento di una storia più grande, quella di quel sistema industriale che ha costruito l’Italia, ma che troppo, troppo spesso ha dimenticato la sicurezza e la salute delle persone che la fanno vivere.
Le amare vignette satiriche che accompagnano ogni canzone nel libro colpiscono con ironia e crudeltà, svelando con un tratto semplice ma graffiante le contraddizioni e le ingiustizie di un sistema che troppo spesso nasconde dietro il sorriso l’indifferenza verso la vita dei lavoratori.
Questo libro ti fa sentire vicino chi ha perso tutto – un ragazzo, una vita, un futuro – e ti fa capire che queste tragedie non sono incidenti casuali, ma il risultato di un meccanismo che continua a far pagare il prezzo più alto a chi lavora, con le mani e con il corpo.
Leggerlo è un po’ come ascoltare un coro di voci dimenticate, è mettersi a fianco di chi non c’è più, per non farlo svanire nel silenzio. Perché Era bello il mio ragazzo è un libro che fa memoria, ma anche un richiamo urgente a non abbassare mai la guardia sulla sicurezza e sul valore della vita di ogni lavoratore.
In fondo, è un libro che parla di umanità, di bellezza fragile e di lotta – e forse proprio per questo ti resta dentro.
Libri come questo sono fondamentali, perché ci ricordano che dietro ogni morte sul lavoro c’è una storia umana, una vita spezzata che non può essere ridotta a un semplice numero o a un’arida statistica. Non smettere mai di parlarne significa tenere viva la memoria di chi è stato sacrificato, ma soprattutto continuare a denunciare un sistema industriale che calcola il profitto sopra ogni cosa, ignorando con cinica indifferenza il valore delle vite dei lavoratori. Solo così possiamo sperare di cambiare davvero le cose.