Noemi De Lisi – L’appuntamento

0
1995
A mia nonna, sempre

Spalancò gli occhi emettendo un piagnucolio. Si guardò intorno smarrito e, quando riconobbe le sagome della sua camera, si acquietò. Da un po’ di tempo era tormentato dallo stesso sogno; sebbene le dinamiche cambiassero, la trama era la stessa: il suo inconscio era paranoico e ripetitivo, scimmiottava il conscio in dolorose e paradossali caricature oniriche. Quando con fatica riusciva a svegliarsi e a tornare in una più palpabile realtà, lo accompagnava una sensazione di mancanza; come se il suo corpo fosse stato strappato via da qualcosa.
Si alzò dal letto e scosse la testa con una smorfia, come per scacciare un pensiero fuori dalle orecchie. Diede uno sguardo all’orologio da parete, cercò di reprimere l’emozione e incominciò a prepararsi. C’erano dei vestiti ben piegati poggiati su una sedia. Li prese uno a uno e li indossò con cura e con lentezza per non sgualcirli. Aprì un cassetto del comò e rimase un attimo incerto a guardare la schiera di cravatte, poi le sfiorò tutte con una mano come tasti di un pianoforte. Le sue dita si fermarono su una cravatta sottile, grigio fumo.
Gliel’aveva regalata Marta, un Natale di due anni fa. Quando aveva aperto il pacchetto e se l’era ritrovata fra le mani il fremito di felicità e gratitudine era stato smorzato da una superstizione tramandata.
«Ti piace?», gli aveva chiesto lei con un sorriso.
«Ahi… Marta, lo sai che non si regalano le cravatte».
«Ma è così bella! Non pensare a quelle cose».
Allora lui aveva tolto dal portafogli una moneta e, tenendola con due dita, si era sporto oltre il tavolo affinché lei l’afferrasse: «Prendi!».
«No. Perché?».
«Ti prego, così è come se l’avessi pagata anche io. Le spille e le cravatte non si regalano». Lui aveva spinto a forza la moneta da venti centesimi nella sua mano, soddisfatto di avere scongiurato un’imminente sfortuna.
Il sorriso di Marta si era spento in una triste accondiscendenza. «Le spille pungono il cuore, ma la cravatta?», gli aveva domandato.
Lui aveva guardato in alto, come per ricordare. In effetti ignorava il motivo: sua madre gli aveva solo detto che era così, producendo quel solito mugolio sonoro di dispiacere al solo pensiero di una simile eventualità.
«Ti ci puoi sempre impiccare!», le aveva risposto, mimando il gesto e lasciando penzolare la lingua all’angolo della bocca.
Tirò fuori dal cassetto quella cravatta grigio fumo e si avvicinò allo specchio, incastonato in un’anta dell’armadio. Se l’accostò al petto per provare se fosse in tono col suo viso. Sollevò il colletto della camicia e se l’annodò al collo. Rimase ad ammirarsi allo specchio, sorridendo e immaginando l’impressione che avrebbe fatto su di lei. Chissà se Marta si sarebbe accorta della premura che lui aveva serbato nel vestirsi quel giorno, dell’attenzione nel farle piacere.
Si torturò un po’ il nodo della cravatta, poi prese la giacca, l’orologio da polso e li indossò entrambi. Sorrise ancora una volta davanti lo specchio e si stupì perché il riflesso non sorrideva a sua volta. Alzò le spalle e prese la porta.
Una volta per strada si incamminò e, a ogni minuto, affrettava il passo. Per essere più agile sbottonò la giacca, ripromettendosi di riabbottonarla prima che lei lo vedesse. Si fermò da un fioraio e rimase perplesso a scrutare i fiori, poi si decise e apostrofò il signore che lo fissava malamente grattandosi l’ombelico attraverso la maglietta: «Scusi, ma rose non ne ha?».
«Sono a tre euro cadauna», replicò il fioraio, scandendo esageratamente l’ultima parola come se l’avesse imparata da poco.
«Siccome qua non ne vedo…».
«Gliele vado a prendere. Quante ne vuole?».
«Un bel mazzo, faccia lei».
«Vengo subito», rispose, e sparì dietro l’angolo.
Lui stette un attimo a guardarsi la punta delle scarpe, poi alzò la testa di scatto e spalancò il viso: «Dispari!», urlò dietro al fioraio.
Questi riapparve qualche minuto dopo, imbracciando un magnifico mazzo di rose rosse, tutte sbocciate. «Servito», disse, porgendoglielo.
Lui lo prese come se fosse un neonato e lo annusò. «Grazie».
Pagò e proseguì per la strada. Camminava tenendo il mazzo per i gambi, a testa in giù, preoccupandosi di non farlo dondolare troppo nell’andatura.
«Sei strano» gli aveva detto una volta Marta, dopo che lui l’aveva raggiunta in piazza. Era inverno e tirava un vento gelido che tagliava gli zigomi.
«Perché?».
«Non ti decidi a guidare».
«Non fa per me, credimi. E poi a che cosa serve? Non vedi che ti raggiungo sempre ovunque?».
«Sì, e non mi fai mai aspettare» aveva risposto distendendo un sorriso e buttandogli le braccia, inguantate di lana, al collo.

Anche questa volta era in perfetto orario. Avanzava spedito, sembrava quasi che fosse lui a rimanere fermo e che la città si muovesse, scorrendogli ai lati o girandogli attorno. Come quando da bambino gli altri lo afferravano e, gridando “ora tocca a te!”, lo mettevano al centro del girotondo e cominciavano a saltellare, tenendosi per mano e cantando. Lui stava in piedi immobile, sorridendo a occhi chiusi per non farsi venire i capogiri.
Finalmente intravvide il luogo dell’incontro. Mentre procedeva, avvertì la trepidazione mutarsi in paura, una paura ambigua e allegra, uguale a quella che gli tintinnava nello stomaco durante i suoi primi incontri con Marta.
Attraversò il piazzale e rallentò il passo. Si fermò e si abbottonò la giacca, passandovi una mano sopra come per stirarla, poi diede uno sguardo alle rose. Non c’era molta altra gente; alcuni erano soli come lui, altri camminavano o sostavano a parlare in piccoli gruppi.
La scorse da lontano; ogni volta Marta era diversa da come se l’era immaginata, da come l’aveva vista la volta precedente. Trattenne un cenno di saluto e si limitò a fissarla, avvicinandosi.
Una volta che l’ebbe di fronte, prese il mazzo con due mani e lo tenne così, sporto verso di lei, per mostrarglielo. Poi si decise e, abbassandosi lentamente, lo posò sulla tomba.
Si rialzò, tenendo la schiena dritta. Osservò le bellissime rose sulla pietra grigia immacolata; un alito di vento ne scuoteva i petali. C’erano altri fiori sulla tomba di Marta, ma ormai erano appassiti, mentre i suoi erano così freschi e magnifici da apparire quasi volgari. Ricalcò con lo sguardo ogni spigolo, ogni lettera del suo nome in rilievo sulla lapide. Intrecciò le dita e chinò il capo come per pregare ma, senza accorgersene, pianse.

FINE

SHARE
Articolo precedenteLeo Ortolani – Due figlie e altri animali feroci
Articolo successivoAndre Agassi – Open
La vera vita è la letteratura (Marcel Proust) Nasce a Palermo nel 1988. Consegue la laurea presso l’Università degli studi di Palermo in Giornalismo per uffici stampa, discutendo una tesi dal titolo “Dalla notizia al romanzo. Volti diversi della cronaca nera”, relatrice prof.ssa Clotilde Bertoni. Attualmente frequenta il corso magistrale in Teorie della comunicazione presso lo stesso ateneo. Nel 2007 alcune sue poesie sono apparse sulla rivista Nuovi Argomenti. Nel 2012 ha frequentato corsi di Editing e Redazione presso la Navarra Editore. Nel 2013 ha vinto la sezione “Poesie” del Premio Subway-Letteratura, classificandosi finalista anche nella sezione “Racconti under 35”. Sa che un giorno smetterà di scrivere, ma non è ancora questo il momento.

Lascia un commento

Scrivi un commento
Per favore inserisci qui il tuo nome

inserisci CAPTCHA *