Me lo ricordo ancora il giorno di settembre che guidò la mia scelta di diventare fotografo. Undici settembre.
La scuola sarebbe iniziata ad ottobre e avevo lavorato per tutta l’estate, commesso in un negozio nel quale, fra le altre cose, si vendevano pellicole, materiale fotografico e si facevano foto formato tessera.
Ero da solo nel locale e, quando tutta la merce aveva iniziato a cadere dagli scaffali, non avevo capito bene quel che stava accadendo. I vetri vibravano, gli oggetti, improvvisamente animati, si ammassavano sul pavimento e io non sapevo che fare.
Ero rimasto fermo. Avevo atteso che il rumore svanisse, che tutto fosse di nuovo fermo e poi ero uscito. Il mondo era in strada ad aspettarmi: donne con le mani tra i capelli, facce di uomini impauriti, impotenti.
Avevo in mano la Kodak Instamatic di una cliente: l’avevo appena caricata con una pellicola da ventiquattro pose. Avevo cominciato a scattare, un occhio nel mirino e l’altro chiuso.
Il terrore era scolpito sui volti delle persone, i suoni scolorivano ai bordi della scena.
Quei ventiquattro scatti in bianco e nero sono ancora impressi nella mia memoria. Quel tardo pomeriggio di settembre rimane la scintilla che mi ha fatto incamminare lungo la strada del guardare: osservare invece di fare.
Pensandoci bene, potrebbe essere stato anche l’esatto contrario: quel giorno la mia indole di spettatore aveva trovato il suo sbocco naturale. Avevo scelto di fissare su carta le immagini di vita che mi pulsano attorno.
Undici settembre millenovecentosettantasei. Il giorno dell’Orcolat: il terremoto del Friuli.