Il cinema italiano, a un certo punto, ha deciso di farsi venire un nodo in gola e di non scioglierlo più. È lì che nasce il lacrima movie: un genere tanto disprezzato quanto irresistibile, pieno di bambini troppo buoni per sopravvivere, padri distratti che si pentono tardi e madri che urlano in dissolvenza. In Fazzoletti e cinema, Gordiano Lupi non si limita a contarne le vittime: ne fa un’autopsia affettuosa, con la precisione del collezionista e la pietà del cinefilo che sa di aver pianto davanti a L’ultima neve di primavera e non se ne vergogna.
Il suo è un libro che si attraversa come un vecchio film pomeridiano su Rete 4, con gli occhi un po’ lucidi e la mente divisa tra il “che esagerazione!” e il “però, che colpo al cuore”. Un viaggio in quel sottobosco sentimentale del nostro cinema che tutti fingono di disprezzare ma che, in fondo, ricordano perfettamente: la bambina pallida sul letto, la madre che urla al cielo, il padre in ritardo di dieci minuti nel momento cruciale, la musica che ti trancia l’anima in due con struggenti note di violino.
Lupi racconta tutto questo con la meticolosità di un archeologo del sentimento, scavando tra le bobine ingiallite e le locandine sbiadite come fossero resti di un culto perduto. Non c’è ironia cinica, non c’è distanza: soltanto la voglia di capire perché, per qualche anno, abbiamo avuto bisogno di piangere al cinema come se fosse un dovere nazionale. E, nel farlo, ci restituisce un pezzo d’Italia dimenticata, quella che con le lacrime esorcizzava la propria malinconia quotidiana.
Leggere questo saggio è come sedersi in sala con una scatola di fazzoletti e un sorriso storto: sai già che piangerai, ma anche che ti sentirai un po’ più vivo. Perché, come nei migliori film sbagliati nel modo giusto, il dolore, quand’è sincero, non passa mai di moda.





















