“Room Little Darker”: June Caldwell intervistata da Catherine Dunne

0
1611

La scrittura di June Caldwell è audace, stupendamente audace e profondamente divertente; la sua prosa frizzante e scoppiettante.
Le storie di Room Little Darker
sono tempeste letterarie e la voce della Caldwell è fresca, genuina, coraggiosa: un lieto nuovo arrivo per il panorama letterario irlandese.
Nuala O’Connor

Questo mese, sono lieta di presentare la scrittrice June Caldwell mentre si prepara a lanciare il suo primo libro di racconti brevi, Room Little Darker. Pubblicata da New Island, June ha lanciato questa raccolta di storie il 31 maggio 2017 presso Hodges Figgis, a Dublino.
June Caldwell ha lavorato per molti anni come giornalista e ora scrive fiction.
La sua storia “SOMAT” è stata pubblicata nella premiata antologia “The Long Gaze Back”, curata da Sinéad Gleeson, ed è stata scelta come ‘preferita’ dal Sunday Times.
Ha vinto il Premio Internazionale Moth Short Story ed è stata selezionata per molti altri, tra cui il Premio Calvino in Fabulist Fiction, il Premio Internazionale Colm Tóibín Short Story, il Premio Lorian Hemingway e il Sunday Business Post/Penguin Ireland Short Story Prize.
Le sue opere sono state pubblicate su The Stinging Fly, The Moth, The Lonely Crowd e Winter Papers (2017).
Ha un Master in Scrittura Creativa presso la Queen’s University di Belfast e vive a Dublino.

‘SOMAT’ fa parte anche di questa nuova raccolta di storie. Narrato dal punto di vista di un feto, è, tra l’altro, un grido di oltraggio contro l’ottavo emendamento alla Costituzione, che in Irlanda può ridurre le donne in gravidanza allo stato di incubatrici. Ma è l’inventiva irriverente della lingua che afferra veramente il lettore per la gola. Puoi darci un’idea di come hai dato vita a questa particolare voce?

Nel 2014 ci sono state due storie degne di Frankenstein di donne tenute prigioniere in situazioni mostruose che mi avevano davvero distrutta e mi facevano infuriare.
Una donna del Texas, di nome Marlise Munoz, era incinta di 14 settimane del secondo figlio della coppia quando il marito la trovò incosciente sul pavimento della cucina.
Le era venuta un’embolia polmonare. Anche se i medici ne avevano dichiarato la morte cerebrale e la sua famiglia ha dichiarato esplicitamente di non volere che le macchine mantenessero in vita il corpo, i funzionari dell’ospedale John Peter Smith a Fort Worth la pensavano diversamente.
La legge del Texas è molto simile alla nostra in Irlanda.
Hanno imposto loro di mantenere in vita la paziente incinta fino a quando ci fosse un battito cardiaco fetale. Mantenere una donna viva contro la volontà della natura (il suo corpo era essenzialmente in decomposizione e doveva essere annegato in medicinali “somatici” per mantenerla “tecnicamente” viva) come incubatrice umana quando il bambino/feto non è in alcun modo vitale è uno scenario spaventoso.
La sua famiglia ha combattuto il proprio dolore e l’impotenza per otto lunghe settimane, dovendo andare in tribunale diverse volte prima che la donna potesse essere staccata dalle macchine. Immagini un trauma del genere? E la legge dovrebbe essere lì per ‘proteggerci’?
Suo marito, Erick Munoz, riteneva che sostenere il suo corpo artificialmente costituisse una “mutilazione crudele e oscena di un corpo deceduto” contro i suoi desideri e quelli della sua famiglia. Questo accadeva all’inizio dell’anno.
Alla fine dell’anno, in Irlanda, si è verificata una situazione quasi identica. Una donna che aveva subito un trauma cerebrale spontaneo, incinta di 18 settimane, finì alla mercé della legislazione in un ospedale “innominato”, contesa tra personale medico, azzeccagarbugli e chiesa cattolica.
L’ospedale ha rifiutato la richiesta della sua famiglia di cessare il sostegno artificiale della vita, citando “la legge rigorosa dell’aborto del Paese” come linea guida.
Poi c’erano le solite offerte da circo: gli avvocati che rappresentavano i diritti della donna e del feto, ma non della sua famiglia, dicevano di aver accettato la sentenza della seconda corte più alta del Paese.
Le organizzazioni pro-vita hanno visto questo orrore come una sorta di trionfo in tempo reale; uomini in abiti da sera pontificavano sulla legge di Dio in merito al destino della donna.
Era una cosa pazzesca e veramente sconvolgente da leggere. Un medico ha commentato che il feto stava essenzialmente “affrontando una ’tempesta perfetta’ da cui non aveva prospettiva realistica di emergere vivo”.
Anche l’argomento più cogente non poteva alterare i fatti: il ‘bambino’ non aveva di fronte altro che sofferenza e morte. L’ospedale aveva paura di essere citato per negligenza o di dover affrontare le accuse di omicidio derivanti da un divieto costituzionale di aborto del 1983, il più rigoroso in Europa.
Mantenere funzionante il suo corpo deteriorato solo con l’aiuto di macchine e droghe l’ha privata “della dignità nella morte”. Ha sottoposto suo padre, il suo compagno e i suoi bambini ad “un disagio inimmaginabile in un inutile esercizio che è iniziato solo a causa delle paure detenute dai medici specialisti del trattamento di potenziali conseguenze legali”, ha deciso la Corte.
E, naturalmente, i funzionari governativi hanno dichiarato che la sentenza sarebbe stata studiata per eventuali eccezioni al divieto generale di aborto. Viviamo in un momento in cui stiamo contemplando di colonizzare Marte, eppure ci sono donne che rimangono in questo stato grottesco nei nostri ospedali, con le loro famiglie ridicolmente sofferenti.
Mi ha fatto veramente arrabbiare.
Volevo scrivere una storia che riflettesse la parabola dell’orrore e ritenevo che fosse meglio raccontarla dalla prospettiva del feto, per evidenziarne la mostruosità. Dopo aver trascorso anni nel giornalismo, con restrizioni su ciò che potresti dire e come potresti dirlo, credo fermamente che la fiction possa essere più efficace, più politicizzata.
Ho scritto la storia in un moto di rabbia, nel termine delle 3.000 parole, il che era difficile da fare, e l’ho mandata a Sinéad Gleeson, che stava pubblicando l’antologia The Long Gaze Back.
Ero veramente nervosa su come sarebbe stata ricevuta, se sarebbe stata sentita come offensiva, se avrebbe fatto parlare la gente. Si è rivelata una delle storie della raccolta di cui più si è parlato.
L’Open University ora vuole che sia parte del Master in scrittura creativa (sezione della fiction) e ha chiesto l’autorizzazione a utilizzarla per i prossimi nove anni. Questo mi ha dato la speranza di avere in me la capacità di fare la differenza.
Fino a quel momento non avevo idea se fossi in grado di scrivere una storia breve o no. La scrittura della storia mi ha aiutato a capire la stupidità delle nostre leggi e la necessità di abrogare l’ottavo emendamento e andare al referendum. Spero che succeda. Bisogna che accada.

I personaggi nelle tue storie abitano spesso in un mondo angoscioso, come quello selvaggiamente immaginato in ‘Il genio della perversione’. Spesso vengono trasportati là dalla ferocia del desiderio sessuale:
“Nel giardino guardo gli ospiti attraverso il caldo degli occhi ambrati. Le piante si distendono e si fanno largo. Mi allungo per giacere sdraiata nel fragile sole di inizio sera. Le nuvole sono affamate e ho l’acquolina in bocca. Le onde di vento si levano le une sulle altre mentre tolgo strati dal cielo per gettarli su di me. Risate grigie e scherzose. Non conoscono il pericolo che l’amore porta”.
Puoi parlarci di questo, del pericolo che l’amore porta nelle tue storie?

Beh, sì, nella vita adulta siamo costretti a essere sempre “civili”, no, per essere ben educati?
Non siamo più adolescenti selvaggi.
Ma a volte non possiamo o non scegliamo i nostri desideri e le persone che li contrastano. Ci scelgono. Ci sbrogliano. Fanno irruzione dall’inconscio e prendono il nostro posto, ci divorano, ci rendono pazzi, ci inondano. Ne può solo conseguire un comportamento pazzesco. Desiderio come un burattinaio invisibile. E questi desideri sono spesso più forti dove esistono gerarchie, dove il tabù chiama, dove il desiderio perverso è in agguato.
In questa storia ho voluto guardare da vicino due stereotipi: il professore lascivo che ha più scelta che senso e la studentessa del Master cotta di lui, che in un primo momento è sopraffatta da vera ammirazione per lui e per il suo lavoro, ma presto questo si trasforma in un desiderio pericoloso.
Il desiderio ha il sopravvento e dirige come un Direttore di Teatro nel dramma, portando in angoli torbidi, imbarazzanti flirt. Lui, naturalmente, in un primo momento ci gioca, prima di diventare maledetto o sconvolto da lei. È abituato a sedurre le donne con la sua mente, “attaccare” con gli occhi, fingendo frasi provocative, prendendo al lazo.
Egli si vede come un personaggio tipo “Gingerman” (citazione dell’omonimo romanzo “scandaloso” di JP Donleavy) e ognuno è preda. Fino a quando il gioco si guasta.
Il suo personaggio è tranquillamente psicopatico. È dipendente dal piacere che gli viene dall’adescare persone, dalle donne che lo desiderano, dalla dissolutezza. Tira i fili, le corde, usa la frusta. Anche la sua posizione glielo consente. È l’ambiente lattiginoso del cancro emotivo, manca l’elemento alcalino. Ha un cervello vasto e modelli psicologici profondamente prevaricanti che lo dirigono. È anche un opportunista fallito.
Ma neanche lei è una vittima.
È anche molto intelligente e gioca molto a fare la bambina intorno a lui, sapendo che a lui piace questo tipo di dinamica. Ma poi perde il controllo e si ritrova fuoribordo, insieme alla sua sanità (mentale), che finisce nel freddo mare glaciale. L’unico modo per affrontare l’idea di lui è trasformarlo nella sua testa in un animale: lui è predatore e lei è la – volontaria – preda.
Tutto molto bello, ma il gioco finisce male quando si rende conto che lui non ha interesse per lei. Non può competere con quello che normalmente lui preferisce. Lei si svela. L’auto-annientamento e la distruzione la consumano. È tutto un po’ disgustoso e vergognoso. Apparentemente lei sembra essere la martire.
Ma poi lei esamina il comportamento di lui all’interno del caleidoscopio del potere e si rende conto che lui può comportarsi come vuole. Le aspettative su di lei, nel «ruolo gerarchico più basso», sono più impegnative e rigide. Si arrabbia e questo perpetua un comportamento ancora più distruttivo. È un impasse. Tornare indietro è inutile, la vendetta è inutile, andare avanti è inutile.
Lei è straziata.
Non la amerà mai, la considererà mai, mai la vorrà. La sua scorta di innamorate che lo amano infinitamente è così grande, lui vi affoga. Entrambi affogano, ma in modi diversi. Alla fine lei si rintana e ha un esaurimento. Cosa succederà quando esce da quel luogo desolato e vede più chiaramente? Vede che lui è solo un uomo (e quanto noioso!).
E quindi? Sentirà rimorso, sarà dispiaciuta per lui? Imparerà cose importanti su se stessa? A lui non interessa comunque e si lamenta formalmente, la conseguenza arriva a pacchi, indipendentemente. Lei è punita gravemente per la sua «trasgressione». Lui ha ogni diritto di fare quello che fa.
Lui ha anche tutti i diritti di stare a galla senza mai esaminare il proprio comportamento perché non crede mai di provocare danni. È tutto “roba” leggera per lui. Forse è lui la “vittima”, forse non ha fatto nulla di sbagliato.
Lei potrebbe essere solo inesorabilmente pazza dopo tutto. Voglio che il lettore prenda in considerazione la macro – storia, per apprezzare e odiare e capire entrambi i personaggi. Il significato della mancanza di senso! Io uso il “Genio della perversione” di Edgar Allan Poe come tipo di metafora o struttura per la storia. Nel suo originale racconto breve, che Poe ha scritto in parte come un saggio, egli prima discute gli impulsi autodistruttivi del narratore, incarnati come metafora simbolica del genio della perversione.
Il narratore descrive questo spirito come l’agente che tenta una persona a fare le cose “semplicemente perché sentiamo che non dobbiamo”. Parla di come siamo costretti a “commettere atti” contro il nostro interesse personale nella vita, che questo fa parte dei nostri impulsi intrinsecamente distruttivi come esseri umani. La colpa che viene prodotta dopo (anche se confessiamo con il nostro comportamento ridicolo, i nostri peccati) è anche inutile. Non importa a nessuno! Il personaggio di Poe, infine, commette un omicidio, la fa franca, ma il desiderio schiacciante [scatenato da un “infido invisibile” che lo persegue, la coscienza] di confessare lo porta nel vicolo dell’impiccato.
Ho pensato che sarebbe stata la metafora perfetta per guardare il desiderio distruttivo e le solitarie profondità paralizzanti cui può portarci.
Io uso un po’ del testo di Poe nella storia, furtivamente.
È in alcune delle frasi, ma il contesto moderno dell’impostazione sommerge il testo originale.
La morale della storia è che il desiderio può essere pericoloso per quanto l’amore è relativo. Dobbiamo sapere come gestirlo, come seppellirlo, come accettare la sconfitta e uscirne, come perdonarci. In definitiva come accettare che a volte non abbiamo alcun controllo. Forse è l’unico modo in cui possiamo davvero imparare.
Questa storia potrebbe anche essere scritta su un prete e una delle sue congregazioni, un pedofilo e un bambino, un alligatore zigzagante verso un cervo succoso che va in giro senza meta. Lo Ying senza lo Yang, la chimica sessuale in un cul-de-sac.
La teoria di Poe del “Genio della perversione” è una teoria precoce del subconscio e della repressione che non sarebbe completamente sviluppata fino a Freud.
Quando la gente si incontra non ha idea di quali psicologie personali si stiano scontrando. È per questo che abbiamo dei confini nella vita. Regole. Quando li ignoriamo, o sfuggiamo ai nostri istinti sprecati, siamo nei guai. Era troppo allettante l’idea di avere la studentessa protagonista a “vincere” alla fine, che fa a pezzi (il professore) per averle fatto del male, ma non sarebbe realistico. La fine è deliberatamente un anti-climax. Forse sono entrambi ancora là fuori e non hanno imparato niente nei loro vuoti polverosi clichè. Questo è quello che immagino comunque. L’amore, la voglia, il desiderio, anche quello malamente deluso, sono potenzialmente traumatici e tradiscono il fragile sé.
Non esiste un punto intermedio, nessuna soluzione, nessuna comprensione. Diventiamo marcati, viziati, ci dondoliamo sulla corda per sempre. Camminare con cautela e assicurarsi che sulle pantofole ci siano suole in gomma per far fronte alla pioggia.

L’immaginazione del tuo scrittore mi sembra che sia un variegato mix di allegria e di orrore. Nel racconto viscerale ‘Upcycle’, una figlia ricorda l’abuso di un padre ormai demente. Eppure il racconto è alleggerito da una ricca dose di umorismo nero, come il tentativo futile della madre, molto tempo addietro, di “avvelenare il suo stufato”. Ci sono molte volte in cui il lettore ride e poi si sente a disagio per aver riso. Puoi parlare con noi del ruolo dell’umorismo nelle tue storie?

Io vedo sempre il lato divertente anche nell’orrore o addirittura anche solo nel quotidiano.
Forse è una sensazione di sana dislocazione, ma trovo “irreale” una grande parte della vita, e ciò comprende anche come ci relazioniamo con la memoria.
Non siamo mai cresciuti, in sostanza.
Anche noi dimentichiamo che il tango si balla sempre in due, che ognuno porta il peso della responsabilità per le proprie relazioni, azioni e, significativamente, per la mancanza di azione. Il crimine della noncuranza, di mancare il senso della vita. Il personaggio della ‘moglie’ in ‘Upcycle’ è rappresentato innanzitutto come un po’ una vittima, ma in realtà dobbiamo chiederci: che cosa c’è dentro di lei per rimanere con un uomo simile? È la pressione sociale del tempo (la storia scorre avanti e indietro negli anni ’70 e ’80 fino ad oggi in cui il marito è in una casa di cura)? Ancora una volta è una storia sulle sabbie mobili del potere: un uomo, che è un bullo nel suo matrimonio ma è ora fuori di sé, con i germi della follia che mangiano il suo cervello, si comporta di conseguenza.
Perde il controllo, ma cerca di riconquistare un po’ di quel controllo perseguitando la sua famiglia. Ma davvero li perseguita o è la loro coscienza che gioca brutti scherzi in seguito a una situazione traumatica? La casa diventa una metafora per la forte ribollente volontà dell’uomo e comincia a cadere a pezzi intorno a loro (la moglie e la figlia).
Immagino che ci sia dell’umorismo involontario in questo.
Nel contesto stesso. Divertimento nell’assurdità. Ci aspettiamo giustizia nella vita, appagamento, liberazione da situazioni difficili. Spesso non arrivano ad adornare la nostra porta di casa.
La vita ci dice: “Hai scelto questa merda, ora affrontala, annusala, ficcatela su per il naso”.
L’umorismo è a volte il nostro unico salvatore.
Senza fare troppo spoiler, alla fine della storia, la protagonista si accorge che il padre è sempre stato terrorizzato da loro, mentre loro l’hanno vissuto in tempo reale, viceversa. L’umorismo nella disperazione, la lotta per la ragione.
Cos’altro c’è da fare a volte se non ridere?
Spero che ci siano divertimento e umorismo nella maggior parte di queste storie. Ad esempio, in ‘Leitrim Flip’, lo scenario è orribile, ma ancora una volta la situazione della coppia nella gabbia è una conseguenza del non pensare le cose con chiarezza. C’è la buffonaggine nel rovesciamento dei ruoli: il carattere “sottomesso” cede e accetta il suo destino. Il “Master” combatte continuamente la loro situazione e rifiuta di accettarla. Eppure, nel suo ruolo tradizionale, si sarebbe aspettato che lei gestisse qualsiasi cosa lui si fosse sognato di dispensare.
In ‘L’uomo che vive in un albero’, l’albero è apparentemente un ‘amico’ ma Rashi presto si rende conto che è un cretino malvagio. Un’amica di Facebook, cui avevo inviato una copia per una recensione, mi ha scritto oggi per dirmi che aveva avuto “gli incubi” dopo aver letto la storia.
Aveva sognato che Liam Neeson si trasformava nell’albero e la inseguiva.
Non potevo smettere di ridere a quella immagine. Se regalo incubi alla gente o la faccio ridere, ho fatto il mio lavoro come scrittrice.
La mia vecchia mamma ottantatreenne mi ha chiesto perché ho scritto di ‘un albero capace di parlare’, e io le ho detto: ‘perché no?’ Gli Hippy credono che gli alberi sussurrino e abbiano voci. Forse è vero. E noi, come persone, come distruttori dell’ambiente, dobbiamo scocciarli a non finire. Ma tutto quello che sentiamo è pietà per noi stessi, non per il caos che noi stiamo facendo. L’albero non si preoccupa troppo per gli esseri umani, anche quelli come Rashi che sono senza casa e disperati. Perché dovrebbe? Questo non dovrebbe essere divertente, ma forse lo è. Qualche volta mi sento anche colpevole di usare l’umorismo in modi inappropriati.
In ‘Dubstopia’ non dovremmo sentire altro che preoccupazione per il personaggio tossicodipendente, ma finiamo per ridere per l’inutilità della sua giornata, per la sua mancanza di controllo, per una città che fremeva minacciosa.
Quando ho lavorato presso l’Irish Writers Center, mi ricordo un giorno che stavo fuori nel portico per prendere un po’ d’aria, e ho visto questo drogato, veramente trasandato, appariva in uno stato terribile, veramente emaciato … e si è fermato per leggere il menù al di fuori del Chapter One (sai, quel costoso ristorante, veramente snob, da stella Michelin!). Sembrava che fosse uscito da un letto sudicio, svegliato dai crampi della fame che lo hanno spinto sulla strada. Stava leggendo il menù a voce alta, impazzendo! Sapevo che non era divertente di per sé, ma non potevo smettere di ridere.
Ci sono stata male, ma ho riso per due giorni.
Mi sentivo orrenda per la mia immoralità nel poter trovare questo divertente. Mi ha fatto stare a disagio. Voglio che le mie storie facciano lo stesso. L’umorismo, una risata, solo per seppellire il viso nelle mani e dire: ‘Per l’amor di Dio!’ è un gran balsamo. Ridiamo in modo incontrollabile dal momento in cui siamo bambini e tutto è orribile e nuovo e distorto: per i divertenti cartoni animati dell’infanzia che ci tranquillizzano e insegnano, per i nostri mortificanti romanzi adolescenziali, fino alla miriade di cose che possono e vanno male per noi come adulti. L’umorismo è anche un vicino parente del dolore. C’è così tanto nella vita che è un inferno privato o qualcosa di impossibile cui far fronte.
Se possiamo prenderci un momento per ridere, allora non è perfetto? Stiamo tutti passeggiando verso il crematorio comunque. Immaginate di poter prendere seriamente questa merda?

Le tue storie riguardano personaggi che si trovano «disancorati» in un universo parallelo strano e ostile. Anche se scuro e terrificante, il mondo che crei è mantenuto vibrante e in qualche modo ottimista dall’energia pura del linguaggio che usi – le tue metafore catturano, sorprendono e illuminano. Il linguaggio o il personaggio sono il punto di partenza per te?

Amo il linguaggio!
Ascolto come parla la gente, non formalmente, ma tipo, sai, le conversazioni che abbiamo al pub o addirittura nelle nostre teste (vi siete mai presi del tempo per ascoltare le vostre teste? È terrificante!) Con ‘Natterbean'(‘Ppenastato) ad esempio: è venuto fuori un giorno in taxi. Un drogato ha attraversato davanti al taxi e il tassista ha detto: “Odio ‘sti maledetti Natterbeans (Ppenastato)”. Gli ho chiesto cosa intendeva dire. “Ogni volta che entrano in macchina, sono tutti: “io sono natterbean (‘Ppenastato) in clinica e quel tipo ha detto…” e così via. Era la sua parola per “io sono appena stato”, detto di fretta. Ho pensato: “questa la rubo!” Linguaggio dritto dalla strada, proprio dalla bocca di un tassista, non puoi essere più joyciano di così.
I tassisti sono i portatori moderni di tutto ciò che era alla base dell’Ulisse.
I loro gorgheggi sono un ottimo esempio di come la lingua viene utilizzata per ottenere la migliore efficacia in modi comuni, nel raccontare. I tassisti ti raccontano sempre storie e lo fanno brillantemente.
Impariamo a scrivere “saggi” a scuola in inglese vittoriano. Scrivere racconti brevi è il suo opposto: in qualsiasi tipo di narrativa, cerchiamo di riflettere la realtà come la viviamo e sperimentiamo. In SOMAT il feto non parla proprio come un feto (tutti sappiamo che non possono parlare, vero?) e la voce è particolarmente adulta e “consapevole”, ma allo stesso tempo va in pezzi e si sdoppia qualche volta in un linguaggio infantile.
Volevo dare un assaggio di ‘e se…’. La voce per me è la cosa più importante in qualsiasi scrittura. Come questo personaggio abita la propria realtà. Ammiro gli scrittori che usano il linguaggio in modi sottili e belli, ma questo non mi appartiene.
La mia eroina in questo senso è Eimear McBride: quello che fa con il linguaggio in A Girl Is a Half-formed Thing (tradotto in italiano: Una Ragazza Lasciata a Metà) è assolutamente brillante.
Sa come la lingua si forma nel cervello attraverso il suo studio e il lavoro nella linguistica.
Mi ha sbalordito.
Vederlo recitato sul palco mi ha scosso fino al midollo. È il miglior esempio di un uso magnifico del linguaggio cui posso pensare. Non sono affatto di quel livello, ma prendo ispirazione da lei.
Amo leggere un libro dove il personaggio (e lo scrittore nel suo ruolo di occupare quel personaggio) sembra quasi posseduto: Ross Raisin in ‘God’s own country’ oppure anche ‘The Lovely Bones’ di Alice Sebold.
Spero di usare il linguaggio in modo efficace per rendere ognuna delle storie diverse tra loro. Ho letto raccolte di racconti in cui “la voce” è sempre la stessa, e sebbene ci voglia una grande abilità nel conseguire questo, non fa per me. Voglio che ogni storia sia così separata e identificabile dalla successiva.
L’utilizzo medio di parole per chiunque usi l’inglese parlato è compreso tra 20.000 e 35.000, ma il dizionario Oxford di inglese elenca almeno 171.476 parole, tra cui migliaia di parole obsolete non più in uso. Guarda come è cambiata la lingua dall’avvento dei social media! Tutti quei neologismi e parole senza vocali?
La lingua, come la sessualità, è fluida, ed è compito dello scrittore sfruttarla al meglio della capacità.
Sarà interessante vedere se una parte della lingua (usata) nelle mie storie ‘Oirish’ porterà ad un pubblico fuori da qui. Funzionerà o sarà noioso? Scrittori come James Kelman e Irvine Welsh hanno reso fiera la lingua scozzese della strada. Come ci muoveremo con i linguaggi high-tech del futuro rimanendo fedeli al nostro modo unico di esprimere noi stessi?

Dopo questa scottante raccolta, ‘Room Little Darker’, cosa c’è nel futuro di June Caldwell scrittrice?

Ho alcuni racconti brevi commissionati da scrivere ora (per il giornale letterario della Lonely Crowd Welsh e Winter Papers qui) e dopo di ciò è il momento di tornare ad una short story abbandonata: una storia omicida su una delle donne scomparse d’Irlanda raccontata, con un rovesciamento, dal punto di vista della morta.
Sono stata ossessionata dal ‘triangolo’ delle donne uccise scomparse che avvenne negli anni ’90, ma la mia storia si muove un po’ nel tempo e guarda all’idea dell’intento omicida e come tanti uomini la fanno franca con la massima violenza contro le donne e come, in quanto paese, siamo ancora completamente impreparati per affrontare questo scenario.
Ho iniziato la storia durante il Master di Belfast, ma non avevo mai tentato la fiction ed era davvero confusa. Questo è il prossimo lavoro a portata di mano e dopo potrei anche scegliere un romanzo “lungo”, in seguito. Amo anche gli ibridi, mix di non-fiction e fiction. Mi sento come se avessi trascorso due decenni in una incubatrice “aspettando” di scrivere.
Non riesco a capire perché non l’ho fatto prima.
Così ora voglio avere tutti i miei bambini in rapida successione. Poi mi ritirerò in campagna per fare più sesso possibile e guardare il mare senza fine, prima di morire. Beh, fermi tutti, sono solo sulla quarantina e forse c’è abbastanza tempo per scrivere tutta una serie di libri inquietanti dove sarò etichettata come malata di mente, ma un giorno qualcuno dirà ‘Coso, lei era un tipo irritabile, va bene, ma poteva metter su una frase, OK’.
Questa, per me, sarebbe una vita ben vissuta.

Questo testo è pubblicato per gentile concessione di Catherine Dunne che l’ha postato sul suo sito: http://catherinedunne.it/interviste-scrittrici-irlandesi-june-caldwell-room-little-darker/

Traduzione di Maria Grazia Mati, q-rob company

 

SHARE
Articolo precedenteWill Eisner – Racconti di guerra
Articolo successivoConor O’Callaghan – Niente sulla terra
Catherine Dunne è autrice di dieci romanzi, il più recente è "Un terribile amore". "Quel che ora sappiamo" ha vinto il Premio Internazionale Giovanni Boccaccio per la Fiction in occasione del 700° anniversario nel 2013 ed è stato finalista all’Irish Book Awards come Eason Novel of the Yerar. Ha anche pubblicato un’opera di non-fiction: una storia sociale degli immigrati irlandesi a Londra, intitolato "Un mondo ignorato". I romanzi di Catherine sono stati selezionati, tra gli altri, per il Kerry Group Irish Novel of the Year Award e per il Premio dei Librai italiani. Il suo lavoro è stato tradotto in diverse lingue. È stata recentemente candidata per l’Irish Fiction Award 2015. Catherine Dunne vive a Dublino.