In una stanza spoglia, rischiarata dalla luce tremula di una lampada a petrolio, Stephen Crane siede con l’aria di chi ha visto più di quanto il mondo gli abbia concesso. Giovane, eppure segnato da una saggezza ruvida, da un’ironia senza illusioni. Il suo sguardo, affilato come la lama di una baionetta, ci scruta con una curiosità assorta.
Signor Crane, il vostro romanzo più celebre, Il segno rosso del coraggio, racconta una guerra senza eroi, senza gloria. Perché questa scelta?
Perché è la sola verità possibile. Gli uomini parlano di guerra come di un’epopea, ma io l’ho vista per quello che è: confusione, paura, sudore, sangue. Henry Fleming, il mio protagonista, non è un Achille. È un ragazzo che si scontra con se stesso prima ancora che con il nemico. La paura lo invade, la vergogna lo consuma, e solo attraversando quest’inferno riesce a comprendere che cosa significhi davvero il coraggio. Ma non aspettatevi un trionfo: la guerra non concede vittorie, solo sopravvissuti.
Eppure non avevate ancora visto il campo di battaglia, quando l’avete scritto. Come avete fatto a rendere ciò che raccontate così reale?
Perché la guerra è solo un’estremizzazione della vita. Ogni uomo combatte la sua battaglia, che sia nel fango di un campo di battaglia o nelle strade di una città. Osservate un uomo in preda alla paura, e vedrete un soldato prima della carica. Guardate un uomo alle prese con la propria coscienza, e vedrete il campo di battaglia più spaventoso di tutti. Non serve essere messi su un rogo per sapere come brucia il fuoco.
Il vostro stile è spesso stato definito “realismo impressionista”. Vi riconoscete in questa definizione?
Etichette, etichette! Non mi interessano. Io scrivo per far sentire il lettore dentro la scena, per fargli avvertire il freddo sulla pelle, il terrore negli occhi, il battito martellante nel petto. Se in Maggie: ragazza di strada vi sembra di camminare nei bassifondi, se in Il segno rosso del coraggio vi trovate a strisciare nel fango con Henry, allora ho fatto il mio dovere. Chiamatelo come volete. Io lo chiamo scrivere.
Maggie: ragazza di strada è un’opera dura, spietata. Non lascia speranze alla sua protagonista. Credete davvero che il destino sia così ineluttabile?
Non c’è bisogno di credere: basta guardarsi attorno. Una ragazza come Maggie non ha mai avuto una possibilità. La società la getta in un ingranaggio e la schiaccia, inesorabile. Io non faccio altro che raccontare quello che succede ogni giorno. È la realtà a essere spietata, non io.
Eppure, nei vostri racconti c’è spesso un’ironia sottile, una leggerezza amara. È una forma di ribellione?
È una forma di sopravvivenza. Guardate La scialuppa: quattro uomini alla deriva, con il mare che decide se vivranno o moriranno. Eppure, che altro possono fare se non remare e scherzare sulla loro stessa sventura? È questa la condizione umana: ci troviamo in una scialuppa, remiamo, e il mare ride di noi. Possiamo solo ridere a nostra volta.
Vi considerate un pessimista?
No, un osservatore. Il mondo non ha bisogno dei miei giudizi: esiste e basta. Io mi limito a raccontarlo. Se la gente trova triste ciò che scrivo, forse dovrebbe chiedersi perché il mondo è così, non perché io lo descrivo così com’è.
E se il mare decidesse di affondare la vostra scialuppa?
(Sorride appena, un lampo ironico negli occhi).
Nuoterei. E, se non ci riuscissi, almeno scriverei una bella storia sulla mia fine.
Serie: Le interviste impossibili