Sono nata a Deir Ayyub, ma non cercarlo sulle mappe.
Non esiste più.
Neanche il vento sa più dove posare quel nome, se non nei sospiri dei vecchi che ancora ricordano. O nei sogni dei bambini, cui raccontiamo che c’era un posto in cui i melograni spaccavano la terra da quant’era rossa e buona, e gli ulivi erano così vecchi che ci parlavano.
Io ero bambina quando le ruspe arrivarono.
Erano precedute dal rombo dei camion militari, da uomini con gli occhi coperti e le mani pesanti. Mio padre mi disse: «Nasconditi dietro la cisterna. Se non torno, vai da tua zia a Ramallah».
Non tornò.
Quando l’aria si fu placata, non c’erano più né casa né villaggio. Solo pietre annerite e un odore di latte bruciato.
Mi rifugiai a Ramallah, poi a Jenin, poi a Nablus.
Da adulta tornai, o cercai di farlo. Ma dove c’era Deir Ayyub, adesso c’è un parco. Un parco che chiamano Canada, come se bastasse un nome straniero per coprire la storia, come un lenzuolo bianco gettato su un cadavere.
Cammino tra pini alti e conifere che puzzano di una resina estranea.
Non cantano come gli ulivi. Sono muti, complici. E sotto la loro ombra straniera sento i morti sussurrare.
Ogni tanto trovo una pietra che conosco. Una lastra con una fenditura che usavamo per legare la capra. Una piastrella gialla, come quelle della cucina di mia madre. Una tazzina sepolta a metà nel terreno.
Hanno provato a cancellare tutto.
Ma il suolo ricorda.
Ora brucia.
Brucia il parco dei pini veloci, le conifere portate per coprire i villaggi scomparsi. I villaggi che hanno distrutto.
Brucia, e sotto la cenere tornano a galla i nomi: Imwas, Yalo, Beit Nuba, Deir Ayyub.
Li sussurra il vento.
Li scrive il fuoco.
Non gioisco. Non posso. Il dolore è troppo. Ma in ogni fiamma vedo innalzarsi il grido di chi non ha mai smesso di vivere sotto quella terra, di chi non l’ha mai davvero lasciata. Di chi non ha potuto.
Io sono solo una donna.
Una donna che piange le proprie radici come si piange un figlio disperso.
Ma, a differenza della madre salomonica, non cedo la mia terra al taglio. Non offro la metà al carnefice.
La voglio tutta. Intera.
E un giorno, lo so, la riavremo.
Perché le radici non muoiono. Possono nascondersi sotto l’asfalto, sotto i pini e le conifere, ma, quando torna il fuoco – quello vero, quello di Allah – allora spuntano di nuovo.
E l’ulivo tornerà a parlare.