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Cataldo Russo – Il cielo sopra di me

Dai diamanti non nasce niente

Un fagotto di stracci. Un ammasso di sacchetti di plastica e fogli di giornale a coprire la disperazione di un corpo abbandonato come vuoto a perdere.

In molti, purtroppo, vedono questa scena e pensano a un problema da risolvere, a un’offesa all’estetica e al buon gusto, a un cattivo esempio per i giovani, a rifiuti da rimuovere.

In pochi pensano che sotto quegli stracci batte un cuore, pulsa del sangue, insomma si nasconde un essere umano.

In pochissimi, quasi nessuno per la verità, sanno che un cappotto lercio e sdrucito può celare un’anima grande quanto il mondo, una dignità senza confini, una rettitudine maniacale che può essere motivo di contemporanea dannazione e salvezza.

Di questo parla Il cielo sopra di me, dato alle stampe dall’editore Giovanni Tranchida.

Il romanzo di Cataldo Russo è indubbiamente sostanzioso,

ricco di spunti per importanti riflessioni; attraverso le sue pagine, e tra le pieghe delle povere esistenze dei protagonisti, scorre la storia del nostro Paese negli ultimi cinquant’anni.

Un’Italia che vive il travaglio del mutamento da un’economia contadina (con un divario tra sud e nord tuttora immutato) a un’economia industriale, con tutti i problemi, anzi i drammi che il passaggio epocale porta con sé.

Terre abbandonate, emigrazione, concentramento in poche enormi città, quasi sempre inospitali o per nulla organizzate ad accogliere la moltitudine che vi giunge spesso con una valigia colma solo di belle speranze e la frustrazione di scoprire un inferno laddove altri avevano dipinto un paradiso, la solitudine, la nostalgia e spesso la strada, con la disperazione di cui è lastricata.

Lungo una di queste strade, e più precisamente sulla panchina di un giardino, nell’alba nascente di un gelido mattino facciamo la conoscenza del protagonista del racconto, uno dei tanti barboni che quotidianamente incontriamo nelle nostre città.

Come dicevo in apertura, solo i più sensibili riconoscono dietro questi muri fatti di sporco e cenci, monumenti eretti al dio dell’incomunicabilità, delle persone fatte di carne sangue e nervi, fatte di affetti finiti, di lavori persi, di sicurezze che poi tanto sicure non erano.

Ed è qui che scatta la fatidica domanda: cos’è successo di così devastante nella mente di quest’uomo, e in quale folle istante ha deciso di buttare alle ortiche (anche se quasi sempre si tratta di scelte imposte dalle circostanze) un passato “normale” per affrontare un futuro di incertezze, fame, freddo e disperazione?

Nel rispondere al quesito, lo scrittore opera come fosse un intagliatore di pietre preziose. Dapprima ci mostra una pietra grezza, il barbone coperto di stracci, inavvicinabile nella sua sporcizia; poi, alla fine della narrazione, come prodotto finito il lettore si ritrova tra le mani un magnifico, lucente diamante.

Domenico Peverata, è questo il nome del protagonista,

non è un barbone qualsiasi (a proposito, oggi il termine politicamente corretto è l’ipocrita “senza fissa dimora”), non è un rifiuto della società, anzi, rovesciando il concetto possiamo affermare che è la società ad essere un rifiuto di Domenico Peverata, straccione docente di coerenza e dignità alla libera università della strada. Una società che non può trovare posto, nonostante gli innumerevoli tentativi fatti, nella vita di questa persona che ha fatto della dirittura morale una sua intima filosofia che rasenta l’integralismo.

Lui che ha lottato per sé e per gli altri, senza mai risparmiarsi, mettendosi sempre in gioco personalmente, per la conquista delle terre da parte di braccianti da sempre sfruttati e senza l’aspettativa di un futuro dignitoso; lui che in miniera, nei cantieri e in fabbrica ha messo la solidarietà e l’amicizia davanti ad ogni altra cosa; lui che con dolore e sofferenza ha amato la sua terra cercando di cavar sangue da una rapa, sugo da un terreno arido e sassoso; come poteva lui accettare un mondo come il nostro, quello di oggi, in cui ognuno pretende tutto e subito, in cui si è perso il senso delle cose, il valore di ogni singola parola e azione, in cui si è smarrito quel bene prezioso che è la capacità di soffrire, la sopportazione della fatica, la pazienza dell’attesa? Come avrebbe potuto accettare Domenico Peverata la velocità del nostro tempo – lui abituato al lento ritmo scandito delle stagioni – che tutto mastica, inghiotte e poi vomita dopo averlo reso inutilizzabile, uomini o cose, che importa?

L’universo del protagonista, che come in una crisi mistica vive il presente nel costante ricordo di ciò che la sua vita è stata prima della drastica scelta che lo ha spinto sulla strada, è costellato di una miriade di dannati della terra, di intoccabili che quotidianamente discendono uno ad uno i gradini che conducono nelle tenebre dalle quali non c’è via di scampo, ben oltre il punto di non ritorno.

Per Domenico Peverata è diverso. Nel libro, l’autore lascia uno spiraglio aperto nel futuro del protagonista, e il lettore coglie la potenzialità di resurrezione – o meglio di salvezza – dal buio, che è data a Peverata dalla sua lucidità, dalla consapevolezza della propria condizione e quindi dalla possibilità di una scelta diversa.

Gli altri no. La puttana ancora piacente ma con il cervello invaso dal tarlo del progressivo quanto inesorabile invecchiamento, il travestito che avendo ceduto una prima volta alle violenze è ora totalmente incapace di ribellarvisi, i compagni di strada di Domenico, loro sì vinti, e umiliati, e offesi, senza alcuna chance, i malati di mente abbandonati a loro stessi, gli ubriaconi, i drogati.

Ma anche il piccolo borghese, incapace di affrontare l’analisi di un qualsiasi problema che implichi un benché minimo sacrificio da parte sua, o i ragazzetti “bene” il cui unico divertimento (avendo già tutto provato) è il safari notturno a caccia del diverso. Tutti persi senza speranza. Tutti tranne il protagonista del romanzo.

Leggendo Il cielo sopra di me ho ritrovato, con piacere, molte delle facce di cui il grande Fabrizio De André amava parlare, quelli che “se non sono gigli / son pur sempre figli / vittime di questo mondo”. E tanto per rimanere in tema, riprendo e correggo un concetto trattato poc’anzi, quello della pietra grezza trasformata in diamante.

Esempio poco calzante, a pensarci bene, per Domenico Peverata, perché, come cantava con la sua stupenda voce il poeta genovese, “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.

E Domenico ha scelto di essere letame, quel letame che è fonte di rigoglio, che fa sbocciare i fiori, nel suo caso i fiori rarissimi e profumati della dignità, della vittoria pur nella sconfitta, dell’orgoglio di appartenenza, della bontà.

Perché il nostro protagonista, pur nel suo individualismo dettato da una fame vorace di quella coerenza che pretende da sé e dagli altri, è soprattutto persona capace di amare, di guardare al benessere di tutti, cosciente che nella ricerca della sola felicità personale (filosofia purtroppo imperante ai giorni nostri) non si approda in alcun luogo degno di essere visitato.

Giuseppe Ciarallo: Giuseppe Ciarallo, molisano di origine, è nato nel 1958 a Milano. Ha pubblicato tre raccolte di short-stories, "Racconti per sax tenore" (Tranchida, 1994), "Amori a serramanico" (Tranchida, 1999), "Le spade non bastano mai" (PaginaUno, 2016) e un poemetto di satira politica dal titolo "DanteSka Apocrifunk – HIP HOPera in sette canti" (PaginaUno, 2011); ha inoltre partecipato con suoi racconti ai libri collettivi "Sorci verdi – Storie di ordinario leghismo" (Alegre, 2011), "Lavoro Vivo" (Alegre, 2012), "Festa d’aprile" (Tempesta Editore, 2015); suoi componimenti sono inclusi in varie raccolte antologiche di poesia: "Carovana dei versi – poesia in azione" 2009, 2011 e 2013 (Ed. abrigliasciolta), "Aloud – Il fenomeno performativo della parola in azione" (Ed. abrigliasciolta, 2016), "Parole sante – versi per una metamorfosi" (Ed. Kurumuny, 2016), "Parole sante – ùmide ampate t’aria" (Ed. Kurumuny, 2017). Scrive di letteratura e non solo su PaginaUno e Inkroci, collabora con A-Rivista anarchica e Buduàr, rivista on line di umorismo e satira. Fa parte del collettivo di redazione di "Letteraria/Nuova Rivista Letteraria" e "Zona Letteraria – Studi e prove di letteratura sociale" fin dalla fondazione.
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