Italo Calvino, con La giornata d’uno scrutatore, ci consegna un’opera di straordinaria lucidità morale e di sottile introspezione filosofica, in cui il gesto apparentemente burocratico del controllo elettorale si trasforma in un viaggio nell’anima di un Paese, il nostro, e nelle sue contraddizioni più profonde.
Il protagonista, Amerigo Ormea, intellettuale di sinistra e alter-ego dell’autore, si ritrova a esercitare la funzione di scrutatore nel Cottolengo di Torino, un’istituzione che accoglie individui gravemente disabili, abbandonati o incapaci di autodeterminarsi. In questo microcosmo, Ormea assiste a un meccanismo elettorale che rasenta l’abuso: voti espressi da chi non è in grado di comprendere il significato stesso della democrazia, manipolati da chi ne detiene il controllo (preti, suore e democristiani). Questo scenario, lungi dall’essere una semplice denuncia di brogli elettorali, si configura come una riflessione più ampia sulla natura della volontà e della coscienza politica.
Calvino, infatti, non si limita a esporre il fenomeno della distorsione del voto, ma ci interroga su una questione etica universale: fino a che punto una società può dirsi democratica quando i meccanismi del consenso vengono costruiti sulla passività o sull’impossibilità di scelta? Il Cottolengo diviene così metafora di un’Italia in cui l’accesso alla consapevolezza politica è spesso negato, sia per condizione sociale, sia per manipolazione istituzionale.
Lo stile di Calvino qui si discosta dalla sua tipica levità per abbracciare una prosa più densa, carica di una malinconia filosofica che trasmette il senso di impotenza di fronte a un’ingiustizia che appare tanto subdola quanto radicata. Non vi è enfasi retorica, né si affacciano condanne esplicite: tutto è lasciato all’intelligenza e alla sensibilità dei lettori, chiamati a condividere lo smarrimento di Ormea di fronte alla scoperta di una realtà più complessa e ambigua di quanto immaginasse.
Un’indagine morale sulla fragilità della democrazia e sulla responsabilità individuale di fronte al potere e alla coscienza. Un libro che, pur nato da un contesto storico preciso, conserva un’attualità disarmante, soprattutto in tempi in cui la manipolazione del consenso continua a essere una minaccia quanto mai concreta per la libertà politica. Chi legge non può che interrogarsi, come Ormea, su quale sia il confine tra partecipazione e sfruttamento, tra diritto e inganno. E scoprire che la vera condanna della democrazia non è la frode, ma l’indifferenza di chi, pur sapendo, lascia che tutto accada.