Tre camere a Manhattan è uno dei romanzi duri di George Simenon, composto durante il suo soggiorno negli Stati Uniti. È un’opera anomala, che potrebbe avere come sottotitolo “Psicopatologia di un rapporto amoroso”, infatti scandaglia l’ossessione di un attore francese trapiantato a New York per una donna incontrata una notte in un bar. Due solitudini, due esseri allo sbando che si aggrappano l’uno all’altra per non precipitare nell’abisso.
Mario Andrea Rigoni, nella quarta di copertina, definisce Tre camere a Manhattan “un romantico capolavoro ambientato nella più romantica delle città moderne”, ma a me non sembra affatto romantico il comportamento di François, che tortura la povera Kay con la sua ossessiva gelosia del passato e, quando finalmente si rende conto di amarla e di non poter fare a meno di lei, la tradisce con una donna incontrata in un bar, in tutto e per tutto un doppio di Kay per la sottomissione e l’assoluta assenza di autostima. E New York, nella luce livida dei lampioni, nello squallore dei bar fumosi, non ha niente di romantico, come nel quadro che Hopper disse di aver dipinto ispirandosi a un locale che si trovava a Greenwich Village, il quartiere attorno a cui ruota, per l’appunto, la storia del romanzo di Simenon.