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    Categories: La pietra

Aoibheann McCann – Johnny Claire

Dipinto di Alpini Gionatan

Ci radunammo tutti attorno allo schermo e lo vedemmo mettere J.C. nella Hall of Fame. Aveva fatto il record di Street Fighter, e non lo avevamo mai incontrato lì prima di allora. Stava piovendo di nuovo, e perciò eravamo al Café. Il Café era un capanno sulla spiaggia con il tetto in lamiera. Il padrone era uno dei Cavanagh, che stavano lungo la strada. Sul retro c’erano un paio di videogiochi e un vecchio tavolo da bigliardo. All’entrata, vendevano secchielli e palette e wafers rettangolari, farciti con porzioni tagliate a mano di gelato HB.
«Che cosa vuol dire JC? Jesus Christ?» chiese Ozzie e noi scoppiammo a ridere.
«Johnny», disse mentre se ne andava.
«È messo male», disse Owen, il fratello di Ozzie, quando Johnny era troppo lontano per poter sentire.
L’unico altro nero che avessi mai conosciuto era stato un prete missionario a casa di mia nonna. Affascinata dal bianco contrasto dei suoi palmi, gli avevo girato e rigirato le mani, mentre se ne stava in piedi sorridendo educatamente. Johnny non era veramente nero, più di un marrone dorato. I suoi soffici ricci erano tinti di biondo e portava un piccolo orecchino d’oro di forma circolare.
Mick, il mio secondo cugino, che a scuola era un anno più avanti di me, disse che aveva visto Johnny poco tempo prima nel piazzale delle roulotte vicino al campo da minigolf. C’erano all’incirca venti roulotte e qualche bagno chimico, non c’era alcun permesso edilizio ma il Consiglio Comunale non faceva nulla. Ogni volta che passavamo lì in macchina mio padre dava fuori di matto.
Ozzie, Owen e Majella avevano una roulotte verde a tre posti al di là della spiaggia. Ci trovavamo lì quando loro padre non era nei dintorni. Se anche la mamma era fuori, ascoltavamo le registrazioni delle scenette in cui si rappresentavano gli scontri immaginari fra i politici nordirlandesi. Avremmo dovuto sapere chi erano i politici, dato che stava accadendo tutto a un paio di miglia dal confine, ma lo ignoravamo. In ogni caso, ridevamo di gusto. I nomi dei politici non erano altro che riflessi condizionati ricevuti dai telegiornali sui canali della Northern Ireland TV. Riesco ancora a vedere la giornalista, più lacca che capelli su uno sfondo color crema, un volto più vecchio della sua età, mentre leggeva il titolo di apertura sulla conta delle vittime anonime, divise fra i tre gruppi di soldati, unionisti e repubblicani.
Ogni anno, per evitare guai, venivano tutti da noi, i profughi dell’estate in roulotte e i pochi privilegiati nelle seconde case. Due degli alloggi estivi avevano il tetto in lamiera ma, rispetto alle roulotte, erano pur sempre meno offensivi agli occhi dei nostri genitori. Nei mesi estivi ci piacevano queste novità, ma d’inverno forzavamo le porte delle loro roulotte e sfasciavamo tutto, giusto per fare qualcosa.
Il sole era calato quando Johnny comparve nuovamente. Eravamo tutti sul bordo dell’asfalto sbriciolato e privo di segnali che passava per essere un parcheggio, a guardare i turisti della domenica e ad ascoltare Master of Puppets dei Metallica. Quando non pioveva, ci accoccolavamo nelle pieghe sugli orli delle dune sabbiose, la schiena rivolta al mare, mentre i ciuffi di ammofila ci graffiavano il viso.
«Bello stereo», disse.
Era un Philips rosso e nero, con batterie massicce che costavano una fortuna, e non duravano niente. Le batterie si stavano scaricando e distorcevano il suono. Tuttavia, non avevo i soldi per comprarne delle altre: i lavori estivi erano limitati al Café e riservati alle ragazze del posto più grandi di noi.
«Fate il bagno, o cosa?», chiese guardando i nostri asciugamani.
«Sì, pensavamo di tuffarci da quassù. Ci stai anche tu?», chiesi.
«No, non so nuotare ma vengo con voi».
Nessuno sollevò obiezioni, così Johnny e io seguimmo gli altri. Attraversata la spiaggia, salimmo sulla formazione di rocce frastagliate che si protendevano verso il mare e ci buttammo giù dalla sommità. Johnny sedette vestito con il suo completo blu scuro accanto alle rocce, le ginocchia piegate e le braccia color caffè attorno alle gambe. Io mi arrampicai più in alto del solito per mettermi un poco in mostra. Più tardi, bighellonammo nel parcheggio che stava diventando sempre più scuro, lanciando di tanto in tanto dei sassi contro le macchine parcheggiate che ribollivano per il sole, e correndo a nasconderci subito dopo dietro le dune.
Più tardi nella roulotte, quando Johnny se ne fu andato a casa e la loro mamma al Ferryport Bar, tutti mi criticarono perché era chiaro che mi piaceva. Cambiai argomento chiedendo a Majella di esibirsi nella sua imitazione di un Dark. Era sempre felice di assecondarci, si risucchiava le guance, si tirava la frangetta davanti agli occhi e canticchiava l’inizio di Soul Kitchen dei Doors. A dire la verità a me i Doors piacevano ma d’estate fingevo che non fosse così.
«Ho visto un gruppo di Dark l’altro giorno, la polizia li perquisiva. Mi è quasi dispiaciuto per loro», disse Ozzie in tono cupo.
Annuimmo tutti molto seriamente, fingendo di capire la faccenda, quando, in fondo, la cosa più vicina ai guai che avessimo mai sperimentato, era stata quella volta che la polizia aveva perquisito le nostre abitazioni alla ricerca di Don Tidy, un imprenditore rapito. Ero già a letto quando arrivarono. Li guardai aprire il grosso, massiccio armadio incassato e osservare la polvere e le frange dei nostri vecchi tappeti. L’anno prima gli UFF[1] avevano messo una bomba lungo la strada, ma non era nemmeno esplosa. I nostri problemi erano solo piccoli inconvenienti. Di solito, al sabato le nostre automobili erano perquisite dai soldati inglesi lungo la strada che portava in città e, al ritorno, dai doganieri irlandesi. Avremmo dovuto lasciar perdere Boots[2] per qualche tempo, se ci fosse stato un allarme-bomba.
Noi eravamo segretamente repubblicani, e quindi quasi gelosi delle vicissitudini dei nostri amici estivi. Provavamo un grande piacere nel sentire le loro storie sui fastidi che dava l’esercito inglese, e sul fatto di essere stranieri nel loro stesso Paese. A Donegal, la parte più settentrionale del Sud, eravamo emarginati dalla Repubblica per il nostro accento e banditi dal resto dell’Ulster a causa dei confini. Quando andavo a Dublino a trovare la nonna, la gente spesso mi chiedeva se fossi di Belfast. Talvolta era più facile rispondere che lo ero e ripetere le storie che Ozzie ci aveva raccontato come se le avessi veramente vissute.
Il giorno dopo bidonai gli altri dicendo che dovevo fare da babysitter a dei cuginetti. Misi il guinzaglio al cane e mi indirizzai verso il campo da minigolf. Johnny era fuori, di fronte alla roulotte che giocava a palla da solo. Sorrise come se mi stesse aspettando e mi venne incontro per accarezzare il cane. Il cane non voleva fermarsi e mi tirò verso la strada. Johnny ci seguì. Ci dirigemmo verso Porto Salach. Era vuoto, come al solito. I pescatori locali lo usavano per posare le nasse per le aragoste e le lenze per i granchi, e così lì non era possibile nuotare. In ogni caso la spiaggia in sé era troppo rocciosa per prendere il sole. Ci sedemmo su una grande roccia. Johnny mi offrì una sigaretta e quando mi avvicinai per prenderla, si allungò per baciarmi. Aveva le labbra morbide che profumavano di erba estiva appena falciata. Mi prese la mano e mi spinse sul prato lì accanto.
«Era tutta l’estate che volevo farlo», mi disse.
«Anch’io», ridacchiai, «ma se il mio vecchio lo scopre, sono morta».
«Non ti accompagno a casa, allora», disse.
Richiamai il cane, distratto da una nassa per aragoste mezza rotta, e ci mettemmo d’accordo per incontrarci di nuovo l’indomani. Sorrisi lungo tutto il tragitto verso casa, sollevata per il fatto che non avesse dato fondo alla sua reputazione di abitante di Derry e non avesse cercato di togliermi i pantaloni. Ci era andato leggero e si era accontentato di un bacio morbido e lento, non come i ragazzi di Donegal che avevo baciato in precedenza, impacciata e frettolosa durante l’ora di pranzo dietro la scuola, con le braccia stanche per i continui tentativi di togliere le loro mani da sotto il mio maglione scolastico.
Lo incontrai al Pilot’s Port la maggior parte delle sere successive. Ci sedevamo su una tubazione di calcestruzzo abbandonata e grigia guardando il mare o baciandoci. I nostri corpi si stringevano l’uno all’altro come possono fare solo i corpi di due adolescenti con i vestiti addosso. Johnny sfregava il suo ginocchio tra le mie gambe, e quando venni per la prima volta le stelle non mi erano mai sembrate così numerose.
Se ne andò con tutto il gruppo alla fine dell’estate. Io me ne stetti vicino al telefono, uscendo soltanto per fumare un paio di volte al giorno. Andai a Derry quel sabato a comprare della cancelleria per la scuola sperando di vedere Johnny per un attimo. Non si fece sentire per organizzare un incontro, come invece aveva promesso di fare. Piansi nonostante conoscessi le regole: non era possibile incontrare quelli di Derry in autunno o in inverno. Eravamo solo amici estivi, quando vigevano regole differenti. Anche se li avessimo incontrati per caso al Richmond Centre[3], ci avrebbero evitati. Eravamo zotici e non volevano essere visti parlare con noi di fronte ai loro amici.
La Pasqua seguente ci furono dei giorni caldissimi, e perciò andai in giro sperando che fosse ritornato. La prima persona che incontrai fu Ozzie, più alto e con i capelli più lunghi.
«Sì Maria, che cosa c’è di divertente da fare qui? Non ci si vede da parecchio».
«Qui non ci si diverte», dissi. «Da voi?».
«Non molto, le solite scocciature con la polizia. Ma aspetta di sentire la storia di Johnny, il ragazzo che se ne stava giù al campo da minigolf l’anno scorso».
Arrossii, e il mio volto mi tradì.
Rise e disse: «Sapevo che ti piaceva. Beh, non ti piacerà più quando ti avrò detto che cosa è successo».
«Certo, certo», dissi alzando gli occhi e preparandomi al peggio.
«Giuro su Dio. …non si chiama Johnny per nulla. Si chiama Claire, perché è una cazzo di ragazza! Quando lo hanno saputo quelli dell’IRA[4] sono dovuti intervenire. Le hanno intimato di smettere di andare in giro vestita da maschio o avrebbe dovuto andarsene. Pervertito del cazzo. Poi lui, o lei, o chiunque fosse, se n’è andato e anche sua madre è sparita, a Belfast o a Londra o chissà dove».
«Devo andare o mio padre mi uccide», dissi, tentando disperatamente di allontanarmi.
«Ci vediamo più tardi al Café, allora», mi disse facendomi l’occhiolino.

*         *          *

Quando arrivai lo stava raccontando agli altri. «Ecco la lesbica cui piaceva Johnny Claire», gridò e tutti si voltarono ridendo.
«Andate a fare in culo», dissi, ritornando al mio accento estivo di Derry.
«Sapevo che era un pervertito o qualcosa del genere», disse Mick.
«Sì, è quello che adesso è scritto sulla sua casa», disse Owen «completamente incenerita. L’ho visto con i miei occhi».
Allora Ozzie ci fece omaggio di altre storie sulle case bruciate, sugli inseguimenti casuali dell’esercito lungo le strade; su come le sue nuove Nike si erano squarciate. Più tardi me ne andai con lui nella vecchia roulotte che avevamo sfasciato d’inverno. Si strusciò su di me prima ancora che ci baciassimo e poi le sue mani furono ovunque. Gli lasciai fare quello che voleva perché avevo qualcosa da dimostrare.
Li evitai per tutto il resto delle vacanze di Pasqua. Mick mi chiamò e io feci finta di non poter uscire perché mio padre mi aveva visto sul collo dei succhiotti violacei.
Mia madre mi disse che avrei dovuto telefonare ai Cavanagh per informarmi se ci sarebbe stato un lavoro al Café quell’estate. Non riuscivo a sopportare la cosa, e così in giugno seguii mia sorella a Londra, dove mi mantenni per tutta l’estate con un lavoro in un pub a Pimlico. Una volta, alla Stazione Vittoria, credetti di vedere Johnny.
“Johnny!” gridai furente, “Johnny Claire!”, rincorrendo lungo la scala mobile una chioma di capelli tinti di biondo.
La folla londinese, di solito indifferente, si volse al suono dell’irato accento nordirlandese dentro a una stazione gremita. Non era lui. Mi sedetti in cima alla scala, esausta, cercando di ricordare le sue labbra morbide sulle mie e lasciando che le stelle si aprissero sopra le strade di Londra, dove ora si nascondevano da me.

[1] Ulster Freedom Fighters: gruppo paramilitare unionista che combatte per mantenere il controllo britannico nel Nord.
[2] Boots: catena di negozi che vendono farmaci e prodotti di bellezza.
[3] Centro commerciale di Derry.
[4] Quelli dell’IRA. Nell’originale “The Boys”, eufemismo usato per indicare i militanti dell’Irish Republican Army.

Traduzione di Francesca Pietroboni e di Michele Curatolo

 


Qui trovi la versione originale in inglese del racconto:
Aoibheann McCann – Johnny Claire

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Aoibheann McCann – Santuario
Aoibheann McCann – Una di quelle donne

Aoibheann McCann: Aoibheann McCann è cresciuta in Donegal ma vive a Galway. Scrive fiction, non-fiction e poesia di occasione. I suoi lavori sono stati pubblicati in riviste e antologie letterarie in Irlanda, Regno Unito e Stati Uniti. È animatrice e curatrice degli eventi letterari "Far from Literature" e "Utter Word" a Galway. Ha pubblicato il romanzo "Marina" (Wordsonthestreet, 2018).
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