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Sudeep Sen: L’architettura di una poesia è molto importante

Foto di Anshul Uniyal

Il punto di partenza per questa intervista con Sudeep Sen è stata la sua poesia “Lingua”, che abbiamo scelto per la nostra nuova rubrica su Inkroci “Two-tongued sea” (Mare bilingue). “Language” è una poesia ottimamente composta dal punto di vista architettonico e costruttivo, che Andrea Sirotti ha tradotto brillantemente in italiano. Abbiamo discusso con Sudeep Sen se fosse necessaria la presenza dell’epigrafe che aveva scelto nella poesia originale — una citazione di Italo Calvino: “Senza traduzione, sarei limitato ai confini del mio Paese. Il traduttore è il mio alleato più importante”. Abbiamo deciso di pubblicare la poesia su Inkroci senza l’epigrafe, per non togliere il piacere ai lettori, che ne troveranno la chiave nella poesia stessa. Ecco la poesia originale (e la sua traduzione italiana).
Nel frattempo, ho saputo che lui vive a New Delhi, dove è nato, e che ha vissuto negli Stati Uniti (New York compresa) dal 1986 al 1991, a Londra per oltre un decennio, e a Dhaka per cinque anni.
Mi veniva naturale chiedergli: “Ma qual è la tua lingua madre, l’hindi?” E Sudeep Sen mi ha detto: “Ho tre lingue madri: inglese, hindi e bengalese”. Mentre lui continuava, dicendo “”Se devo sceglierne una, soprattutto per la mia scrittura, è l’inglese”, ho esclamato (con sorpresa): “Ah, bengalese”. Ho sorriso e gli ho fatto alcune domande che conoscevo in benglalese, una delle grandi lingue della poesia: “Ki korcho?”, “Ki boi porcho?”, e Sudeep, sorpreso, rispondeva in Bangla. Dopo questa rapida comunicazione in due delle sue lingue, abbiamo deciso di fare l’intervista in quella che parla soprattutto nella sua poesia. E non poteva essere in altro modo, anche se avrei voluto poter riflettere molto di più sui suoi lunghi “pranzi sulla poesia”.
Ho anche visto un film, ‘Silence’, in cui la sua meravigliosa voce risuona mentre assorbiamo le sue poesie: “Delhi”, “Absences” e “Silence”, appunto. Volevo che parlavassimo di quei suoi componimenti e della sua filmografia, perché nel 1989 aveva conseguito una laurea in specializzazione presso la Graduate School of Journalism della Columbia University. La tesi del suo master era un film documentario, ‘Babylon is Dying: Diary of Third Street’, che aveva vinto una Emmy Nomination agli studenti; dopodiché, nei successivi cinque anni circa,aveva continuato a realizzare professionalmente molti altri documentari e cortometraggi.
Però… è andata in altro modo, gli ho fatto altre domande e lui parlava di altre poesie.

Quando hai iniziato a pensare che avresti potuto diventare poeta?

Scrivo poesie dai tempi del liceo, quando ero alla St. Columba’s School di Nuova Delhi. Ovviamente leggo poesie da quando ero piuttosto giovane. Sono cresciuto in una famiglia liberale e istruita, con molta poesia e musica intorno a me. L’arte, la letteratura, la filosofia, e il mondo delle idee in particolare, hanno sempre fatto parte della mia educazione. Da piccolo mia madre e mia nonna mi recitavano versi per bambini e mi cantavano canzoni. Mi rendo conto ora che gran parte del mio interesse per la forma, la struttura, lo schema del suono e della rima deriva dall’ascoltare ad alta voce la musica ammaliatrice delle loro preghiere e canzoni, che ho interiorizzato nel corso degli anni.
I miei genitori e i miei nonni mi hanno introdotto al mondo della poesia. Recitavano i grandi poeti bengalesi: Rabindranath Tagore, Jibanananda Das e Kazi Nazrul Islam, ma anche Shakespeare, Milton, i romantici e i vittoriani. Ho finito per impararne molti a memoria. A scuola e all’università ho esplorato la poesia hindi e quella urdu, ho scoperto i russi, i latinoamericani, così come i versi giapponesi e cinesi. Tra i miei poeti preferiti di allora c’erano Faiz Ahmed Faiz, Irina Ratushinskaya, Yevgeny Yevtushenko, Octavio Paz, Pablo Neruda, Basho, Li Bai e molti altri. Mio zio mi ha aperto una finestra meravigliosa su un mondo fino a quel momento per me sconosciuto di poeti europei moderni: Vasko Popa, Guillaume Apollinaire, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Hans Magnus Enzensberger, Rainer Maria Rilke, Johannes Bobrowski, Horst Bienek e tanti altri. Anche i poeti metafisici e i simbolisti francesi, in particolare John Donne, Baudelaire, Mallarmé e Verlaine, mi hanno affascinato. Ovviamente, essendo cresciuto negli anni Settanta, non potevano mancare Ezra Pound e T.S. Eliot. Il gruppo ha continuato a ingrandirsi e, grazie a una serena osmosi, sono stato sedotto dal mondo del suono, del ritmo, delle trame di parole, delle idee, delle sillabe, della musica e del linguaggio stesso.
Sono stato sempre convinto che scrivere poesie fosse estremamente difficile (anche se mi piaceva moltissimo leggerle), e credevo fosse meglio lasciarlo fare ai maestri. Poi, un giorno nel 1980 (all’epoca frequentavo la scuola superiore), sognando a occhi aperti durante una noiosa lezione a scuola scrissi, del tutto inconsapevolmente in rima e metrica perfette, la mia prima poesia. Sono seguiti anni in cui ho scritto cumuli e cumuli di ciò che con imbarazzo potrebbe essere definito “immaturo”, e spesso poesie ingenue. Comunque sento che in esse c’erano un senso di innocenza, idealismo, serietà e onestà.

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Quindi, il tuo primo libro o esordio poetico è stato…

Il mio primo libro “non ufficiale”, Leaning Against the Lamp-Post, era una raccolta di poesie scritte tra il 1978 e il 1982. Nel 1983, facendo affidamento sul mio crescente entusiasmo, ho raccolto il coraggio, ho scelto una cinquantina di poesie fra quelle, molte di più, che avevo composto fino ad allora e, con l’aiuto di una piccola somma che mio nonno mi aveva regalato per il diploma, le ho portate presso una stamperia locale. Furono ciclostilate usando una di quelle macchine ormai in disuso, disordinate, gigantesche (la fotocopia era ancora piuttosto costosa) e cucite a mano in legatoria da un anziano che, fino ad allora, aveva rilegato solo manuali di legge e resoconti commerciali con la solita copertina rossa in stoffa e la costola in pelle con i titoli stampati in lettere dorate. Era la prima volta che rilegava una raccolta di poesie, e lo fece con grande attenzione e con la cura di un raffinato artigiano. Lui stesso era un poeta, scriveva e recitava in urdu. Parlava correntemente anche il bengalese (la mia lingua madre), avendo trascorso i suoi primi anni di vita in quello che oggi è conosciuto come Bangladesh. Forse era di buon augurio che le mie prime poesie fossero benedette dal tocco tattile di un vero poeta. Sarebbe giusto dire che mio nonno, grazie al suo contributo, lo ha trasformato nel mio primo editore. È proprio così: quella raccolta di poesie, in tiratura limitata e assemblata a mano, sarebbe diventata il mio primo libro di versi “non ufficiale”.
Comunque il mio primo libro “ufficiale”, The Lunar Visitations, è uscito a New York nel 1990. È stato il risultato della vittoria in un concorso di poesia americana, dove erano previsti un premio in denaro e la pubblicazione del manoscritto in volume. Non posso credere che siano già passati trent’anni!

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Qual è il tuo strumento preferito per scrivere: un programma come Microsoft Word, Google Docs, eccetera? Oppure carta e penna?

All’inizio scrivo a mano. Le prime bozze sono fissate con una matita o una penna stilografica. La tattilità della mina di grafite di una matita o il graffio grezzo del pennino d’oro di una penna stilografica sulla carta sono magici: fanno parte del piacere dell’atto stesso di scrivere. So che si tratta di uno strumento piuttosto antiquato, ma per fortuna è così.
Solo dopo aver scritto a mano diverse bozze, riporto il testo su un computer. Seguono numerosi cicli di revisione e aggiustamento. Detto questo, ci sono state occasioni in cui ho scritto direttamente sul computer, ma piuttosto rare. In definitiva non ci sono regole rigide e ferree — se l’ispirazione mi colpisce e non ho i miei strumenti preferiti, cioè una matita o una penna stilografica e un foglio di carta bianca — allora scrivo su tutto ciò che ho a disposizione al momento, anche sulla mia stessa pelle.

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Come procedi per editare i tuoi scritti?

Tendo a seguire un rigido regime di editing — bozza dopo bozza dopo bozza. Non voglio ridondanze o eccessi nella versione finale delle mie poesie. Mi piace che siano snelle e muscolose, flessuose e liriche, intelligenti ed eleganti — architettonicamente solide e ben costruite. E, per questo, devi farle passare attraverso un rigoroso esercizio intellettuale e infinite ore di sudore — metaforicamente parlando.
L’architettura di una poesia è molto importante per me, anche a causa del mio interesse intrinseco per l’architettura stessa. Durante i miei periodi di apprendistato scrivevo usando deliberatamente rigorose strutture tradizionali, metriche, formali e schemi di rime. Ovviamente ho anche scritto in versi liberi, ma a causa della mia predilezione per il verso formale è probabile trovare un pantoum accanto a un poema acrostico, un triolet giustapposto a un ghazal, prose liriche e poesia in prosa, frammenti come quelli di Saffo, pastiche a mosaico, ecfrasi, sonetti, rubai, canzonieri, salmi, resoconti, rap, reggae, influenze creole, canti, tritine, sestine, ottave, rime reali e variazioni sulla struttura waka: haiku, tanka, katauta, choka, bussokusekika, sedoka.
Man mano che sono diventato più esperto e competente, ho iniziato a innovare e sperimentare, a creare e inventare nuove forme e strutture poetiche. Credo anche che una poesia non debba essere solo linguisticamente impegnativa, ma anche che il modo in cui appare visivamente sia un fattore importante. Per me, l’aspetto tipografico e la struttura di una poesia sono vitali quanto lo spirito interiore e il contenuto.

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Com’è il tuo rapporto, la tua relazione (shomporko in bengalese) con la rima?

La mia relazione con il bengalese è come quella con il cordone ombelicale per un neonato. I miei genitori erano bengalesi e sono cresciuto in una famiglia che parlava Bangla in un quartiere bengalese di Nuova Delhi. L’hindi e l’inglese erano le mie altre lingue madri. Quindi la tradizione culturale, storica, linguistica e letteraria della lingua bengalese ha avuto un effetto molto importante sulla mia cadenza poetica, sulla trama, sul ritmo e sulle prime costruzioni in rima. Un ottimo esempio al riguardo è la mia poesia “Durga Puja” [ripubblicato successivamente nel quotidiano The Dhaka Tribune come parte di una sequenza più ampia, “Durga Sextet”]:
<https://www.dhakatribune.com/magazine/arts-letters/2018/10/11/durga-sextet?fbclid=IwAR0BaatHgFB0zobWefUnS9fg72-hO5HusBUHeVIGXAAm8KhZgX1XzKcMcUo> .
Durante il periodo che precede le celebrazioni della puja, le preghiere vengono cantate da Chandipaath. Nella poesia “Durga Puja” cerco di riprodurre il suo languido ritmo baritonale e la sua cadenza simile a una canzone, così come la sua struttura a distici lunghi.
Nella poesia “New York Times” <https://www.amazon.com/New-York-Times-Sudeep-Sen/dp/0907326250>, ho inventato uno schema di rime del tipo abxba cdxdc efxfe e così via: il verso di mezzo, quello indicato con la ‘x’, infatti è speculare nel riflettere il primo e il secondo verso sul quarto e sul quinto di ogni stanza. L’altro motivo per cui ho usato il formato della strofa di cinque versi in questa poesia è perché la città di New York ha cinque distretti: Manhattan, Queens, Brooklyn, Bronx, e Staten Island. Un ulteriore aspetto particolare del componimento è che se si ruota la poesia di novanta gradi sull’asse centrale, il profilo così ottenuto richiama la forma dell’isola di Manhattan e il suo riflesso sulle acque circostanti.
Un’altra poesia, il romanzo in versi Mount Vesuvius in Eight Frames <https://www.peepaltreepress.com/books/mount-vesuvius-eight-frames> (poi trasmessa in podcast su BBC Radio e presentata in anteprima a Londra come spettacolo teatrale da Border Crossings per la regia di Michael Walling) è basata su una serie di otto incisioni di un artista britannico, Peter Standen. L’intero poema è poggiato su distici in rima che riflettono la presenza di due personaggi principali: uomo / donna, amante / altro, vita / morte e le altre dualità fondamentali. Ma non hanno l’aspetto di rime esplicite (come i traslucidi refrain corali nella poesia): sono rime avvolgenti contrapposte ad altre tronche. Le quattro stanze in ciascuna sezione riflettono le quattro stagioni, i quattro lati di una cornice, i quattro angoli di uno spazio visivo. Utilizzo anche il rientro di linea alternato per ogni distico e strofa con l’idea che l’intera poesia funzioni su un principio ciclico. Quindi, se unisci tutte le stanze insieme usando il margine giustificato a sinistra come piano di riferimento, in realtà riproducono perfettamente un’articolazione a coda di rondine.
La poesia “Single Malt” (pubblicata in Wasafiri, UK) <https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/02690059708589569> grammaticalmente è un unico verso, senza punti, che imita il modo in cui il whisky, versato delicatamente in un bicchiere di cristallo, ne accarezza i lati e, in seguito, la tavolozza della lingua; da qui la sottile verticalità della struttura di questa poesia.
Un altro esempio è la poesia “Bharatanatyam Dancer” (si può leggere su ‘The Poetry Foundation’, USA): <https://www.poetryfoundation.org/poems/57549/bharatanatyam-dancer>. In questa poesia, potrebbe essere interessante, per i lettori appassionati della forma, notare che lo schema delle rime di fine verso — abacca… dbdeed… fbfggf… — disegna e riflette il ritmo e il fraseggio della danza classica reale — ta dhin ta thaye thaye ta. Inoltre, le rientranze del margine sinistro corrispondono allo stesso schema formale.
C’è inoltre il mio romanzo in versi Distracted Geography: An Archipelago of Intent (pubblicata da Peepal Tree (UK) e da Wings Press (USA): <https://www.peepaltreepress.com/books/reviews/distracted-geographies-archipelago-intent>. È una lunga poesia di oltre 206 pagine. La struttura allungata e rada del poema richiama in parte la forza e la solidità delle vertebre e della spina dorsale umane, proprio come le Odi di Neruda che riflettono la forma lunga e sottile del Cile. Le sezioni e le sottosezioni si uniscono come giunzioni tra osso e osso. I titoli sono segnali semitrasparenti o pause del respiro, non separatori. I brevi distici fanno eco alle impronte a doppio passo, un percorso tracciato sull’atlante. Le 12 sezioni corrispondono alle 12 costole in una gabbia toracica umana, ai 12 mesi in un anno, ai due cicli di 12 ore ciascuno in un giorno. Ci sono 26 ossa nella colonna vertebrale dell’uomo, e le 26 parti del poema si assemblano lentamente formando un’impalcatura di versi collegati appena. Le 206 pagine di questo libro corrispondono al numero esatto di ossa in un corpo umano.

Puoi chiarire il tuo impegno con le forme in evoluzione nella poesia?

Propongo continue innovazioni con forma e struttura. Questo mi ha permesso di inventare e introdurre nuove forme (e strutture) nella tradizione poetica inglese laddove prima non esistevano. Anche se la voce e la tecnica sono in un costante stato di flusso e crescita, c’è sempre un timbro personale identificabile. È stato molto gratificante proporre contributi originali in questo campo letterario. Spero di poter continuare a farlo.

Hai un poeta di cui stai cercando di emulare la voce o lo stile quando scrivi?

No, proprio nessuno, anche se ammiro molti poeti, dai classici ai contemporanei. Ma, se dovessi stilare una classifica delle mie prime tre preferenze, al primo posto vi sarebbe il “Dio” della poesia, quella musa meravigliosamente indefinibile. Poi verrebbe il poeta Milton — come non ammirare un uomo che ha impiegato 16 libri per scrivere un unico poema epico, Paradise Lost & Paradise Regained. E infine ci sarebbe uno dei miei mentori, il premio Nobel per la letteratura nel 1992 Derek Walcott: i suoi lavori Omeros e Tiepolo’s Hound (entrambi poemi epici moderni) sono tra i miei preferiti.

Leggi dei libri sul processo creativo?

Non più. Nei miei inizi come studente, specialmente durante il periodo trascorso negli Stati Uniti a studiare inglese e scrittura creativa nelle università, molti dei miei professori mi hanno introdotto a libri che insegnavano l’arte e il mestiere di scrivere. Al tempo mi erano utili, in quanto dovevo prendere confidenza con gli aspetti tecnici della forma e della struttura — qualcosa che mi interessava profondamente, allora come adesso. Ma, dopo anni di apprendistato, non leggo più libri sul processo creativo.
Più scrivi e acquisisci esperienza, più interiorizzato diventa il processo di scrittura. Ciò riguarda sia l’arte, sia l’uso delle varie possibilità formali che la costellazione della poesia racchiude in sé: l’intero processo è sia centripeto che centrifugo, organico e in continua evoluzione, si spera nella giusta direzione.

Ti piace vedere le tue poesie tradotte nelle lingue regionali indiane?

Certo, è sempre una gioia vederle danzare sulla bocca di un altro e prendere vita in altre lingue. Anch’io sono un traduttore, come sai, quindi è qualcosa cui tengo molto. Molte delle mie poesie — una ad una, o intere raccolte — sono state tradotte in diverse lingue indiane come bengalese, hindi, urdu, punjabi, marathi, malayalam, tamil, telugu, oriya e altre. È meraviglioso che la gente del mio Paese, in diverse parti dell’India, possa accedere alla mia poesia inglese nelle lingue locali.
È anche un’emozione che il pubblico internazionale possa entrare nel mondo della mia scrittura letteraria attraverso traduzioni in lingue come francese, tedesco, italiano, spagnolo, galiziano, turco, ungherese, svedese, norvegese, rumeno, croato, serbo, macedone, arabo, persiano, coreano, cinese, malese e molte altre.

Condiveresti con coloro che leggono questa intervista i tuoi pensieri sulla necessità della poesia durante questi tempi difficili della pandemia?

La natura ha sempre ispirato scrittori e artisti. Nemmeno io sono stato insensibile a questa attrazione. Tuttavia ho notato che, con il passare del tempo, la celebrazione della natura nella mia poesia e nella mia prosa è stata mitigata da avvertimenti su ciò che l’attuale cambiamento irreversibile del clima significa per la Terra.
Le mie poesie, ad esempio, si soffermano spesso sul tema dell’eccesso. Avendo vissuto a Delhi per la maggior parte della mia vita e avendo affrontato il suo clima prevalentemente caldo per decenni, ho spesso scritto su aspetti del “caldo”. Il calore infastidisce, respinge, ispira ed esaspera:

Heat outside is like filigreed sand on my skin —
swift, sharp, pointed, deceptive, furnace hot.
(da ‘Heat Sand’)

All’inizio degli anni Duemila, tuttavia, ho vissuto in Bangladesh per alcuni anni. Dopo aver abitato per un quinquennio nella regione dei “due Bengala” — Bengala occidentale in India e Bangladesh — ho pubblicato un libro intitolato Monsoon che è stato successivamente ripubblicato come Rain.

It is bone-dry — I pray for any moisture that might fall from the emaciated skies — // There is a cloud, just a solitary cloud wafting perilously — // But it is too far in the distance for any real hope — for rain.
(‘Drought, Cloud’, Rain)

Il libro Rain riflette e medita sui diversi stati d’animo e sugli effetti della pioggia: passione e politica, bellezza e furia, speranza e disperazione, capacità di “soffocare e suscitare”. In un certo senso era un libro sulle espressioni del cambiamento climatico, anche se confesso di non averlo pianificato, almeno non consapevolmente.
Durante i primi giorni di lockdown a causa del Covid-19, le cose stavano cambiando così velocemente intorno a noi da influenzare profondamente la nostra società: il gioco della politica, il modo in cui le persone pensavano e reagivano, il nuovo approccio del ‘working from home’ — lavoro da casa — per i privilegiati e la mancanza di lavoro per i diseredati, le immagini raccapriccianti di migranti che camminano per centinaia di chilometri in un tempo inclemente spazzato dalla fame e dal dolore, dalla quarantena, dal virus — tutto questo non può non avere effetto anche sulla psiche. A peggiorare le cose, la pandemia è stata accompagnata da inondazioni, attacchi di locuste, terremoti e altre catastrofi.
Allo stesso tempo, con il Paese bloccato e nessun trasporto permesso per le strade, con uffici e industrie chiusi, Delhi ha iniziato a mostrare segni di rigenerazione. È stato straordinario quanto velocemente abbiamo visto i segni della natura che guariva da sola: aria pulita, cieli azzurri durante il giorno e stellati di notte, i panorami all’alba e al tramonto ogni giorno assolutamente spettacolari, e la costante euforia del silenzio. Fuori dalla mia finestra i passeri, le api e le farfalle erano tornati — e per un po’ mi è sembrata la Delhi dei tempi passati, quella in cui ero cresciuto negli anni Settanta e Ottanta. In quel periodo passavo due o tre ore la sera sulla mia terrazza — leggendo, camminando, guardando, chiamando i vicini, ascoltando gli uccelli, “origliando le stelle” e fotografando gli orizzonti. Ho iniziato a fissare i cieli esattamente dallo stesso punto di vista sulla mia terrazza giorno dopo giorno, e la selezione di fotografie in questo libro vi darà un’idea della variegata vivacità della tela in continua evoluzione.
In mezzo a tutto il clamore della retorica pubblica e dell’angoscia diffusa, questo libro è una tranquilla offerta artistica. È una testimonianza dei nostri tempi caotici in cui un frastuono politico fascista prevale sul silenzio dell’introspezione, dove le devastazioni del cambiamento climatico sfregiano l’umanità, dove la distanza tra ricchi e poveri diventa sempre più ampia, dove il razzismo raggiunge il suo massimo livello, dove l’astio tra le persone prolifera e le fake news abbondano.
In Anthropocene: Climate Change, Contagion, Consolation, il nuovo libro che ho scritto quest’anno durante la pandemia — attraverserete la vasta (e mia personale) lotta contro l’inquinamento e le comorbilità, le brusche salite della pressione atmosferica e suoi crolli, le insolite ondate di calore, la pioggia fuori stagione e la grandine, l’innalzamento degli oceani che inghiotte le coste di tutto il mondo, le inondazioni, i cicloni, la devastazione, le malattie fisiche e psicologiche.
Anche nei luoghi più spettacolari si può intravvedere la “terribile bellezza” che essi racchiudono. Sappiamo che i tramonti hanno un odore diverso e più forte a causa dell’inquinamento atmosferico, e che alcuni campioni geologici sono sorprendenti a causa delle impurità che contengono. Ad “Akrotiri”, sull’isola vulcanica greca di Santorini, vediamo:

sand-soil compacted mineral
paintings — rainbow reserved normally for the skies.

Diverse tecniche e forme letterarie sono state utilizzate per mostrare il passaggio del nostro mondo dall’utopia alla distopia, così si paleseranno versi formali e liberi, poesie in prosa, prose frammentate, flash e microfiction e altro ancora.
“Ovunque vada, scopro che un poeta è stato lì prima di me”, aveva osservato una volta Sigmund Freud.
Anthropocene: Climate Change, Contagion, Consolation, mentre tratta gli argomenti più urgenti che l’umanità deve affrontare ora — il cambiamento climatico e la pandemia — è in definitiva una preghiera per la positività e la speranza. È di nuovo tempo di rallentare, consumare meno, amare in modo più altruista e ricco di affetto.

Hope, heed, heal — our song, in present tense.
(from ‘Love in the Time of Corona’)

*

KEY POETRY LINKS:

https://www.poetryfoundation.org/poets/sudeep-sen [Poetry Foundation, Chicago, USA] https://www.poetryinternational.org/pi/poet/14009/Sudeep-Sen [Poetry International, Rotterdam, Holland] https://literature.britishcouncil.org/writer/sudeep-sen [British Council, London, UK] https://www.youtube.com/watch?v=tIAigwTR1JI [Jaipur Literature Festival / video live reading] https://www.youtube.com/user/MrSudeepSen [YouTube for three poetry films] https://www.poetryinternational.org/pi/poem/14057/auto/0/0/Sudeep-Sen/Offering/en/tile [the poem ‘Offering’ / text & audio] https://www.poemhunter.com/i/ebooks/pdf/sudeep_sen_2012_6.pdf [Poem Hunter: poetry selection]

F I L M S on SUDEEP SEN’s Poetry

SILENCE: a triptych (poetry film / 5 mins), based on the work of the internationally acclaimed poet SUDEEP SEN | Director: Ramanjit Kaur, Music: Tanmoy Bose, Cinematography: Anshul Uniyal, Editor: Rajdeep | YouTube Premiere on Nov 22, 2020 | At the Berlin Flash Film Festival (awarded Honourable Mention Citation) + featured official selection at various national & international film & literary festivals.
https://www.youtube.com/watch?v=KkOMcIPZq7M

CROSSING THE LINES OF DESIRE (poetry film / 12 mins) | based on the work of the internationally acclaimed poet SUDEEP SEN | Director: Davina Lee | Music: Aditya Balani | Starring: Germaine Joseph, Claudia Edward & Natalie la Porte | Assistant Director: Ashline Sankar George | Production Manager: Julianus Felix | Production Assistant: Vicklan George | A DAVINA LEE FILM (12 mins)
https://youtu.be/jkTPWESULg4

PRAYER FLAG – (poetry/dance film / 6.29 mins) — is a creative collaboration between Sudeep Sen, Shovana Narayan & Aparna Sanyal. Credits: Poetry, Narration & Title Design: Sudeep Sen; Dance & Choreography: Shovana Narayan; Director: Aparna Sanyal; Camera: Basit Sanyal; Editor: Pooja Iyengar: Producer: Mixed Media Productions
https://www.youtube.com/watch?v=sg5N2BSNNDA

Emilia Mirazchiyska: Emilia Mirazchiyska (1972) vive e lavora a Sofia, Bulgaria, dove è nata. È editore e direttore della piccola casa editrice Scalino, che include a catalogo anche due antologie in italiano da lei curate: “Maternità possibili” (insieme a Rayna Castoldi, 2011) e “Saluti a Dickens – 15 storie di Natale” (2012). Oltre ad aver insegnato per anni storia dell’arte al Liceo Italiano di Sofia, è traduttrice: a sua firma la versione tradotta del primo romanzo di Francesca Lancini “Senza tacchi” (Bompiani, 2011) e la prima parte del libro di poesie di Dome Bulfaro “Marcia film” (Scalino, 2016). Ha inoltre tradotto dal bulgaro all’italiano con diversi co-traduttori/poeti italiani i libri di alcuni importanti poeti bulgari: Vladimir Levchev (il cui libro antologico di poesie “Amore in piazza” è pubblicato in Italia da Terra d’ulivi edizioni, febbraio 2016, nella loro traduzione con Fabio Izzo); Beloslava Dimitrova (“La natura selvaggia”, pubblicato in Italia da Arcipelago itaca edizioni, febbraio 2017, nella loro traduzione con Danilo Mandolini); Aksinia Mihaylova (“Nel delta del mondo”, pubblicato in Italia da Edizioni Kolibris, maggio 2017, nella loro traduzione con Francesco Tomada).
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