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Anna Ettore – La baia

Illustrazione di Sam Franza

Guardava il mare e nella notte aspettava il suo bambino. Ogni volta tornava a sedersi al bordo dell’insenatura dove si apriva la baia degli annegati. Era convinta che in qualche modo lui potesse tornare, magari sorgendo dalla spuma nera come una perla strappata alle profondità dell’abisso, le sue bianche carni intatte come se gli anni non fossero passati.

I suoi occhi scrutavano l’ombra delle onde e i riflessi della luna che popolavano la riva, cercando di scorgere qualcuno.
Da dietro la capanna dei pescatori Marcial il gobbo tratteneva il fiato e nella sua innocua follia si tormentava per il dolore della donna sulla spiaggia. Tanto bella e tanto sola.

Il giorno in cui Jesus era scomparso nell’ oceano anche Mararìa era morta con lui, e tutti a Femés se ne erano accorti.

Quando le donne le avevano raccontato la disgrazia, era corsa sui pendii del vulcano, in bilico sui cigli dei burroni, incurante delle spine, tra i fichi d’India, per vomitare nelle campagne aride e riarse la sua disperazione.

Nelle notti di luna, a lungo, lontana da ogni creatura che le ricordasse gli umani, era rimasta a urlare il suo dolore rauco insieme ai cani, a un Dio che si era dimenticato di lei. La sua sofferenza non aveva speranza e non provava pietà, non aveva significato.
L’aria oscura che veniva dal mare le accarezzò la schiena facendola rabbrividire.
Mararìa si alzò avvolta dal suo abito di lutto e camminò sulla spiaggia umida.

I suoi piedi venivano inghiottiti dalla sabbia a ogni passo, come se la morte stesse cercando di risucchiarla nella terra. Una bruma leggera aleggiava sull’acqua, come quando aveva aspettato l’arabo, nel giorno del loro matrimonio, vestita di bianco sotto il portico, sola perché lui non era mai arrivato. Per ore era rimasta in balia dei suoi compaesani, che nella loro gioia sguaiata celebravano la sua solitudine, rabbiosamente euforici mentre lei, anche quella volta, moriva.
Perché nessuno l’aveva mai amata?
Forse vi era realmente una maledizione su di lei e per quella ragione la chiamavano strega.

Ormai viveva nella notte e rifuggiva la gente, placando il suo tormento, per qualche istante, nella natura dell’isola.
Proprio quando si trovava sui fianchi del vulcano, accovacciata tra l’erba secca e le sterpaglie, sentiva la voce del suo Jesus chiamarla a sé.
Solo un flebile sussurro trasportato dal vento, avrebbe potuto ingannare chiunque ma non lei: capiva che là dove l’aveva perso lo doveva ritrovare, aspettando ogni notte l’onda che l’avrebbe riportato indietro.

Così ridiscendeva giù fino alla costa, nascosta dai muri delle case bianche: notte dopo notte attraversava il paese per arrivare al mare in cui l’aveva perduto.
Mararìa era un animale selvatico, strisciava nell’ombra, si acquattava nel cimitero del villaggio e attendeva il momento in cui più nessuno camminava per le strade.
Soltanto allora, quando il silenzio strangolava il paese, raggiungeva la spiaggia e lì, nell’incanto della luna o nello smarrimento della tenebra, vegliava.

Ogni notte i suoi occhi si sgranavano nel buio e fissavano le onde, con i sensi dilatati ascoltava la risacca del mare in attesa di un segno del suo bambino.
Poi, quando l’ultimo latrato dei cani si disperdeva nel vuoto opaco del cielo, capiva che era l’ora di tornare nella sua tana. Anche per quella notte lui non sarebbe tornato.
Per parlargli bisognava aspettare la sera del giorno dopo.

FINE

Anna Ettore: Anna Ettore è nata e vive a Milano. Si è laureata in lingue e letterature straniere e lavora come bibliotecaria e interprete. Ha frequentato per alcuni anni la Scuola Forrester di scrittura creativa della Casa Editrice Tranchida. Crede che il suo destino sia diventare scrittrice e nel frattempo si appassiona a culture, lingue e paesi lontani.
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