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Michele Curatolo – I fiori perduti

Illustrazione di Sam Franza

Adesso Alberto lavora a Milano.
Per lungo tempo, da quando aveva iniziato a vivere con Carla, e gli erano serviti un po’ di soldi per tirare avanti, aveva fatto il commesso in un negozio del centro di Brescia, non lontano da Piazza del Mercato.
Era un negozio molto antico, ampio, dalle pareti interne foderate di legno, con grandi vasi di vetro colmi di bulbi e sementi, in fila l’uno accanto all’altro negli scaffali dietro al bancone. Il negozio vendeva fiori, e apparteneva al signor Paolo Giuliani, un lontano parente di Alberto.
Già anziano, il Giuliani si era improvvisamente spostato da Como a Brescia, aveva rilevato una vecchia drogheria, l’aveva trasformata in un negozio di fiori, e si era ricordato del pronipote, proponendogli di lavorare per lui.
All’inizio Alberto gli aveva tenuto soltanto la contabilità, ma ben presto, su invito del Giuliani stesso, si era dedicato anche ai fiori.
Gli piaceva molto lavorare con i fiori: li spostava dal magazzino alla vetrina seguendo il corso delle stagioni, li curava, ne sorvegliava la crescita; poi riempiva i grandi vasi di vetro con fagioli e lenticchie e, mentre il signor Paolo sedeva tranquillo alla cassa, serviva i suoi clienti abituali, anziani come lui che, da quando il negozio aveva aperto, si erano come passati parola l’un l’altro e ora si ritrovavano lì quasi ogni giorno, con una sorta di serena allegria.
A Giuliani Alberto era simpatico e chiacchierava volentieri con lui. Di una cosa sola però non gli aveva mai parlato: del motivo per il quale, a quasi settant’anni, aveva lasciato la sua città per venire a Brescia.
Finalmente una sera in negozio – l’aria era calda, e la primavera alle porte – Alberto aveva inaspettatamente saputo qualcosa di più:
«Ma a Como non ci stava bene, signor Paolo? Il lago è bellissimo in questa stagione» aveva chiesto al Giuliani.
«No, Alberto. A Como non potevo più starci. E non solo perché mia moglie è morta. Troppe discussioni, troppi litigi con mio cugino Bruno…».
«Bruno Giuliani l’industriale, quello delle caldaie?».
«Siamo cugini primi, figli di fratelli. Non siamo mai andati d’accordo, ma negli ultimi anni era sempre peggio.
Aveva rubato l’anima a tutti, a Como, anche Giovanni e Giacomo lo ammiravano perché è pieno di soldi. Ma io non ho mai voluto seguirlo, non ho mai voluto mettere la mia vita nelle sue mani. E quando Arianna è morta, sono scappato via e me ne sono venuto qui».
«Però a Brescia lei non abita da solo. Non si sono trasferiti qui anche Giovanni e Giacomo? Andrà un po’ meglio adesso, no?».
«Sì, Giovanni e Giacomo sono venuti qui con le loro attività. Ma sai come cambiano le cose quando si invecchia, Alberto. Anche i legami più stretti sembra che si allentino: loro sono qui, ma li vedo poco, non li sento quasi: è come se fossero rimasti a Como.
La vecchiaia è una brutta bestia, caro mio. Per fortuna che c’è questo posto».

Un paio d’anni dopo, il signor Paolo era morto senza quasi recare disturbo, appassito silenziosamente come una pianta non curata. Senza consultare Alberto, i suoi figli avevano subito chiuso il negozio di fiori e, dopo qualche settimana, ne avevano rivenduto i locali a un’agenzia immobiliare. Il negozio di fiori e sementi foderato di legno era stato sostituito da una banca in marmo, vetro e cemento.
I figli del vecchio Giuliani avevano poi spiegato ad Alberto che quello era un affare da prendere al volo. Dopo qualche settimana dai funerali erano venuti di loro iniziativa a casa di Alberto e Carla, al Villaggio Ferrari; anche lei era lì quando si erano presentati. Entrambi sui quaranta, eleganti e di bell’aspetto, ciarlieri ma piuttosto sbrigativi, i due erano rapidamente arrivati al punto:
«Era un’occasione da non perdere, Alberto. Sai, era già da un po’ che l’agenzia ci stava sotto. Papà non lo sapeva, o forse lo immaginava ma noi non glielo abbiamo mai detto direttamente per non inquietarlo. Comunque, siamo sicuri che adesso sarebbe contento di noi».
«E poi» aveva aggiunto Giacomo, il più giovane, «mattone vuol dire sicurezza, no? E, insomma, i soldi bisogna pure farli girare perché solo in questo modo l’economia può crescere e creare prosperità. Altro che fiori, Alberto. Capisci adesso perché abbiamo venduto così in fretta?».
Mentre i due Giuliani gli parlavano così, Alberto pensava molte cose, ma replicava poco o nulla. Era la sua natura. Sentiva che non era giusto che fosse finita in quel modo con il negozio, ma i due non gli avevano dato scelta.
Alle loro parole aveva assentito quasi senza protestare, anche se gli dispiaceva aver dovuto lasciare quel lavoro e aver perso i fiori. Del resto, che cosa avrebbe potuto dire a quei due? Era solo un pronipote di Paolo Giuliani, né gli era mai piaciuto mettersi in urto con qualcuno. Tanto meno con i suoi figli. Anche per questo accettò il piccolo assegno che Giovanni gli firmò alla fine dell’incontro, per compensarlo, come disse, «del suo disturbo e in ricordo di papà».
In effetti, come avevano previsto i Giuliani, l’economia crebbe e creò prosperità a tal punto che i due iniziarono ben presto a girare per Brescia con auto di lusso.
Come sempre, anche dopo quell’incontro Carla, la dolce, lo aveva sostenuto. Una sintonia totale. Un’unione perfetta con lei. Carla era dolce e bella, sempre entusiasta e curiosa del mondo, e aveva totalmente condiviso le scelte di Alberto.
Volutamente si erano cercati dei lavori poco impegnativi e tranquilli, lui nel negozio di fiori e lei commessa in un’erboristeria al centro commerciale “Brescia Mart” di San Polo, perché volevano costruirsi un futuro diverso da quello cui quasi tutti aspiravano nella loro città. Il resto del mondo attorno a loro sembrava preso da un vortice.
Quante volte avevano riso Alberto e Carla di fronte a quelli che passavano il loro tempo in preda a sogni di ricchezza; che si esibivano per corso Zanardelli e piazza Arnaldo come in passerella, sempre vestiti all’ultima moda; che curavano la loro persona come maniaci invasati.
Anche quando aveva perduto il lavoro dei fiori e, poco tempo dopo, i soldi avevano cominciato a scarseggiare, Carla gli era stata al fianco senza riserve. Dopo l’incontro con Giovanni e Giacomo l’aveva consolato:
«Non preoccuparti, Alberto. Hai fatto benissimo. Inutile protestare con quella gente. Vedrai che il male che hanno fatto a te e a Paolo Giuliani ricadrà su di loro».
Aveva sorriso, Alberto, dell’ingenuità della compagna.
Gli seccava ammetterlo, ma stentava a trovare quale male potesse veramente ricadere sui due figli di Paolo Giuliani. Incassato il denaro della vendita del negozio di fiori, ora guidavano le loro fuoriserie, e si circondavano di amiche sensuali e sempre abbronzate.
Alberto non era sicuro se questo fosse l’ideale di Como; certamente sapeva che era l’ideale di Brescia: abiti costosi e alte cilindrate. Alberto e Carla giravano insieme in bicicletta.
Ma Carla insisteva:
«Aspetta e vedrai che prima o poi il loro karma li porterà alla rovina. Vedrai che in questa vita o in un’altra pagheranno per quello che hanno fatto. Perché», spiegava, «nel ciclo delle esistenze è la perfezione interiore che deve essere perseguita.
E rendersi schiavi del denaro in questo mondo ti può perdere sicuramente in quello che verrà».
Alberto non era contento quando Carla faceva di questi discorsi. Era l’unico punto sul quale, pur non dicendoglielo apertamente, spesso non si trovava d’accordo con lei. Alberto non amava gli eccessi misticheggianti di Carla.
Non perché non li capisse, ma perché andavano contro al suo tranquillo progetto di serenità, contro al suo personale senso di equilibrio. Un romanzo, un film, e una passeggiata in bicicletta era ciò che desiderava fare. La mistica orientale lo intristiva.
Ma Carla era fatta così: talvolta si faceva prendere da improvvise passioni, e Alberto non aveva né l’energia né la volontà di cambiarla. Era così dolce.
Da qualche tempo lei, che ultimamente leggeva libri un po’ troppo stravaganti per Alberto, si incontrava spesso con Rajiv, un indiano dalla fama di illuminato, e con un gruppo di suoi seguaci, che aveva conosciuto al “Brescia Mart”.
Durante le loro riunioni Alberto preferiva rimanere a casa o stare da solo. Solo una volta aveva intravisto Rajiv e aveva iniziato a preoccuparsi. Un giorno d’estate Carla era uscita di casa nel primo pomeriggio, dicendogli che sarebbe tornata presto. Invece era passata la mezzanotte senza che lei fosse rientrata.
Alberto aveva preso la bicicletta per andarla a cercare. Era giunto sotto la finestra al piano terreno di una vecchia casa del centro, dietro a San Faustino, dove sapeva che il gruppo di Rajiv si incontrava.
La finestra era spalancata per il caldo, e le voci ne uscivano distinte nel silenzio della notte. Alberto aveva sbirciato dentro e aveva visto un uomo grassoccio vestito di bianco. Con gli occhi socchiusi e l’accento straniero parlava al gruppo.
Fra i presenti, nella stanza piena di fumo, Carla, la dolce, lo fissava incantata, con uno sguardo estatico, gli occhi umidi nei suoi occhi, totalmente incatenata, silenziosa e madida di sudore.
Vuoto, immobile, muto, Alberto non era entrato nella casa. Non visto, aveva ascoltato per qualche minuto i discorsi di Rajiv. I soliti argomenti ripetuti anche da Carla. La catena delle esistenze. La vita piena di illusioni.
La perfezione interiore. Il nuovo equilibrio. Il Nirvana. Poi era tornato a casa silenziosamente, con in testa l’immagine di Carla in estasi davanti a Rajiv. E lei era arrivata il mattino dopo.
Da quel momento Carla cambiò. Rapidamente, duramente, senza remissione. L’accordo di un tempo andò in frantumi di schianto.
Furono pronunziate parole di commiserazione, poi d’insofferenza, e infine di disprezzo. Carla, la dolce, gli disse che da tempo non lo considerava più un uomo, anche se continuava a fare l’amore con lui.
Lo accusò di non bastarle più né di assecondare la sua ricerca di assoluto. Gli confessò che non vedeva nulla di male nell’essere innamorata di altri contemporaneamente a lui. Alberto ascoltava fulminato, ad ogni parola di lei sempre più sorpreso. Al solito non replicava. Non sapeva che cosa dire.
Finché lei se ne andò via di casa senza più farsi trovare.

Passarono molti mesi. Alberto aveva ricominciato a lavorare. Niente più fiori, adesso: li aveva persi, e non poteva più curarli. Aveva un posto da impiegato in una compagnia alla periferia di Milano, dalle parti di viale Monza.
Senza ribellarsi era entrato nel vortice. Si alzava presto alla mattina, solo, nella casa di Brescia abbandonata da Carla, e correva alla stazione. Lavorava di corsa. Mangiava un boccone di corsa. Riprendeva il lavoro e, di corsa, ritornava a Brescia.
A volte, dopo essere rimasto in ufficio fino a tarda sera, prendeva nel cuore della notte l’ultimo treno dei pendolari da Centrale o da Lambrate. Sempre di corsa, sempre solo, senza mai parlare con nessuno. Quando poi scendeva dal treno e attraversava in fretta l’atrio della stazione di Brescia, aveva appena il tempo per dare un’occhiata a quelli che passavano la notte lì.
Uomini e donne senza un’età, sdraiati sulle panchine di cemento, carichi di sporte di plastica lurida. Gruppi di extracomunitari addormentati che aprivano per un istante grandi occhi vuoti su di lui che li sfiorava passando. Giovani che russavano negli angoli, e al loro fianco grossi cani spelacchiati e bottiglie di vino frantumate. Alberto li guardava e correva via. Pensava ai fiori perduti. E entrava in un buco nero.
Adesso Alberto lavora a Milano.
Qualche tempo fa, mentre si affrettava verso Centrale per prendere il treno della sera verso casa, ha rivisto Carla, la dolce. Lei invece non ha potuto vedere Alberto, che si è nascosto appena in tempo per non farsi scorgere.
No, stranamente non era con Rajiv, né con uno dei suoi seguaci. Era sfolgorante, con un nuovo colore di capelli, un’altra acconciatura, vestita all’ultima moda, dimagrita, quasi perfetta. La accompagnava un uomo alto e distinto, anche lui bello ma dall’espressione accigliata.
Alberto lo ha riconosciuto: era Giacomo Giuliani. Alberto li ha seguiti con lo sguardo. Correvano e litigavano ferocemente, con frenesia, rimbeccandosi l’uno con l’altra. Senza gioia sui loro volti. Nessuna felicità. Duri, freddi, arcigni.
Persi nel vortice.

Michele Curatolo: Un altro uomo invisibile che galleggia in mezzo al mare del nulla, è arduo definirlo sia per tratti somatici che per età. Campa la vita lavorando, di contraggenio, in uno dei templi assoluti della brescianità e, ciò nonostante, ne prende ispirazione per le cose che scrive. Espulso da tutti i circoli cui si è aggregato, gli amici lo chiamano “Wikipedia” a causa dei discorsi incomprensibili e della pronunzia, che confonde in un unico suono le erre, le elle, le vu, le pi, le bi, le esse e le effe. Sostiene di essere pacifista, ma si vanta di aver redatto, molto tempo fa, alcuni testi rivoluzionari per un ex-guerrigliero irascibile e avarissimo, ora convertitosi al libero mercato.
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