Un consulente finanziario di mezza età scompare da una metropoli immersa nella primavera. Le persone che conosceva cercano di scoprire che fine abbia fatto. Tutto il romanzo gravita intorno alle reazioni più o meno sincere di chi lo ha perso e alle indagini sulla sua sparizione.
Giuseppe Pontiggia, in La grande sera, mette in campo tutto senza mettere in campo nulla: si compiace delle stile, delle descrizioni dei paesaggi, delle considerazioni e degli aforismi che concepisce (e che mette in bocca ora ai personaggi, ora a se stesso), senza però riuscire ad andare oltre uno sterile autocompiacimento. La sua scrittura è fin troppo ricercata, al punto da risultare manierista; a questa forma impeccabile corrispondono contenuti ridondanti e vuoti, in cui è viva solo l’esteriorità degli atti e dei sentimenti descritti, rivelando un autore stanco e formale esattamente come i suoi protagonisti. Infatti, nonostante l’ironia sottile esercitata nei loro confronti, i personaggi sono costruiti con psicologismi da salotto, e la sterminata quanto inconsistente galleria di caratteri serve soltanto a dissimulare un vuoto d’idee che impregna completamente questo romanzo radical chic. Come se non bastasse, l’opera non rivela nulla che non sappiamo già; alzi, presenta il risaputo come rivelazione.
Trascurabile e presuntuoso.