Concordo con Fabio Canessa quando scrive (Il Tirreno, 8 febbraio 2021) che Lei mi parla ancora è il più bel film italiano dell’anno. Aggiungo che è un vero peccato non averlo visto al cinema, perché la fotografia di Cesare Bastelli – luminosa e anticata – e le grandi panoramiche ferraresi del delta del Po ne escono ridimensionate.
La storia, liberamente tratta dal romanzo omonimo di Giuseppe Sgarbi (Skirà, poi La Nave di Teseo), racconta un amore che supera i confini della vita e che trasforma i suoi protagonisti in esseri immortali. Avati usa l’espressione per sempre, ormai fuori moda per designare un amore, e mette a confronto due personaggi diametralmente opposti. Renato Pozzetto (Nino) è l’anziano farmacista rimasto vedovo che di notte parla ancora con la moglie Caterina (Sandrelli), la sente ancora presente, confidando nel biglietto scritto il giorno delle nozze: “Se saremo capaci di amarci per tutta la vita di identico amore, diventeremo immortali”. Un amore nato sotto cattivi auspici, con il contrasto delle rispettive famiglie, tra loro troppo diverse, curato e custodito per tutta la vita fino a farlo diventare eterno. Fabrizio Gifuni, invece, è lo scrittore ombra incaricato di scrivere i ricordi del vedovo e di costruirci un romanzo, in cambio di denaro e della promessa di pubblicazione, da parte della figlia, di un suo vero romanzo. Il rapporto tra i due personaggi parte in salita, ma si modifica al punto che lo scrittore cambia carattere e subisce i benefici del contatto con un uomo che ha vissuto un amore così grande. Lo scrittore non è stato un marito perfetto, il suo matrimonio è durato solo quattro anni, convive con un’altra donna e le cose non vanno molto bene: trascura la figlia, conduce un’esistenza senza scopo. L’amicizia che si instaura tra lui e l’anziano vedovo lo porta a modificare il suo modo d’intendere la vita e a migliorare il suo rapporto con la figlia e con l’ex moglie. La vita è amore, sembra dire Avati, soprattutto nel finale, quando cita Pavese: “Soltanto questo resta di immortale di un uomo mortale: il ricordo che porta, il ricordo che lascia”.
Lei mi parla ancora è uno dei film più struggenti e personali del Pupi Avati minimalista, perché raccontando la storia di Giuseppe Sgarbi narra la propria, la vicenda di un uomo che un tempo ha sposato la donna più bella di Bologna e che è stato capace di restarle accanto per tutta la vita, nonostante le difficoltà e gli inevitabili problemi di una convivenza. Stupenda la scelta di cominciare la storia con le note di Malagueña che escono da un disco graffiato che gira su un piatto d’altri tempi, così come è straordinaria l’alternanza di piani narrativi, passando dal contemporaneo alla dimensione del ricordo, facendo interagire i personaggi in una dimensione onirica, trasfigurati, rivivendo vecchi incontri come se il tempo non fosse passato.
La fotografia di Cesare Bastelli cambia da una situazione all’altra: si fa anticata quando la mente vaga a ricordare gli anni Cinquanta, diventa lucente e moderna a Roma, ritorna d’un colore pacato nella provinciale Ferrara. Persino la macchina da presa si muove secondo il tipo di racconto che in quel preciso istante il regista vuole scrivere, così come il montaggio di Ivan Zuccon è sempre calibrato e ben dosato.
Renato Pozzetto, insolito in un ruolo drammatico, interpreta il film della sua vita; bene ha fatto Pupi Avati a passare sopra antiche incomprensioni (grazie al fratello Antonio) e a volerlo in questo delicato ruolo. Il film grava tutto sulle sue spalle, pure se Stefania Sandrelli è degna comprimaria, mentre Alessandro Haber è il fratello fantasma che si presenta per annunciare eventi luttuosi. Chiara Caselli si cala benissimo nel ruolo di Elisabetta Sgarbi, finisce quasi per somigliarle fisicamente. Isabella Ragonese e Lino Musella sono i coniugi Sgarbi da giovani, interessanti in due ruoli complessi che si alternano nei piani temporali di un’azione che passa dalla tristezza alla felicità senza soluzione di continuità. Rivedere Serena Grandi e Nicola Nocella in un film di Avati fa bene al cuore.
Avati cita Il settimo sigillo di Ingmar Bergman mostrando una serata ferrarese in un Cineclub all’aperto, con la famosa sequenza della montagna scalata, intrisa di riferimenti al senso della morte e dell’esistenza.
Cinema di poesia, come diceva Pasolini, anche se il modo di raccontare di Avati, con quella voce fuori campo suadente che ci accompagna nella visione come se fosse la voce della nonna che racconta una storia, è lontano mille miglia dalla poetica di Pasolini. Cinema fuori da ogni moda, soprattutto per i messaggi positivi che trasmette; fedeltà a un mondo antico, provinciale, che ha creduto in certi valori e nei rapporti eterni, ma anche riferimenti espliciti al tema della morte. Un film ben bilanciato tra nostalgia e commozione, tra il rimpianto del tempo perduto e la consapevolezza che un amore “per sempre” renda immortali.