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Intervista a Lamberto Garzia: l’accesso all’assunzione di acidi

di Alessia Bronico

Nella prima parte della quarta di copertina c’è scritto: “Il titolo del libro «Capped Dice» prende spunto da un termine desunto dal gioco dei dadi o Craps, che vuole intendere un dado (truccato) sottoposto a limatura di uno dei lati e consequenziale certosino riempimento/incappucciamento (capping) dello spazio lavorato con un materiale diverso, che alla vista appare identico all’originale, ma anche e più semplicemente L’incappucciato (l’autore) dice, racconta, attraverso le pagine di un Diario allucinato e a tratti esilarante, di una pericolosa indagine tesa a svelare un Mistero, nella quale il personaggio principale, almeno nelle prime pagine, è quello del grande scrittore Tommaso Landolfi”, etc.
Vorrei chiederti cosa e come è venuta fuori la figura del raffinatissimo scrittore Tommaso Landolfi.

Sul cosa e il come preferirei mantenerlo celato sotto mantella lisa, magari sperando d’incuriosire qualche vostro lettore, prossimo a divenire mio lettore… ma, sorvolando sul tema, è che la mia ricerca è stata molto, ma molto stancante, tendendo conto che Landolfi ha vissuto ad Arma di Taggia per quasi sette anni, in completo anonimato e ricercata solitudine (viveva da solo, la famiglia era a Sanremo), e non poco ha scritto: DES MOIS (Diario): novembre 1963 – aprile 1964, Tre Racconti (Prosa – racconti), UN AMORE DEL NOSTRO TEMPO (Prosa – romanzo), Viola di Morte (Poesie), Il Faust 1967 (Teatro), Breve Canzoniere (Poesie e Prosa), Un Paniere di Chiocciole (Racconti brevi o Elzeviri) e altro. Quindi, dopo una ricerca-studio estenuante, sono riuscito a creare un sorprendente (anche per me stesso) parallelo tra non pochi frammenti di testo e la toponomastica cittadina degli anni Sessanta (che non potevo personalmente ricostruire, ma ricostruita grazie a testimonianze orali e fotografiche), che vanno a creare ulteriore parallelo con lo scrittore-uomo, grazie a testimonianze dirette di persone ormai anziane, ma dai ricordi lucidissimi. Un esempio, tanto per farne uno tra le centinaia, è tratto dal racconto bellissimo LA MUTA (parte del libro I Tre Racconti): descrivendo il camminare in sordina di una ragazza, Landolfi riferisce di un sottopasso, che, per chi non è del luogo, potrebbe sembrare una forzatura eccessiva finalizzata al nulla, che riporto: Andava verso un sottopassaggio della ferrovia, molto basso; ha dovuto chinarsi per riuscire di là, e lo ha fatto senza scomporsi, ossia senza scompaginarsi, in più mostrando nell’atto vezzi insospettati.
Ma, per meglio rendere l’idea, cito da Capped Dice il passaggio interessato, nella sua interezza.

[…] Avevo voglia di andare verso il mare, sulla spiaggia, togliere le scarpe e i calzini e affondare i piedi nella sabbia: fumando una Chiaravalle, prodotte dalle Manifatture Italiane Tabacco, al 100% nostrane: unica mia debolezza al sentimento adesivo di nazionalismo.

Dal caffè Sport, per giungerci, e a proposito del nomignolo dell’altro bar, inutile il mio almanaccare, era stato forgiato unendo le prime tre sillabe dei nomi dei tre conduttori novizi, nati e cresciuti nella Penisola: Enrico (nulla da eccepire), Dionne (proposta evirazione lettere due alfabetiche parte terminale o medesima azione nei confronti del padre, accantonando le lettere e piena libertà nella numerazione corporale), Konny (proposta depenalizzazione legge sulla tortura)… Ma stavo dicendo, per giungerci dovevo passare via Alfredo Blengino, qualche passo, orizzontalmente la pedo-ciclabile, dove una volta ci passava il treno, le forche caudine armasche (oh Landolfi): Vicolo Romano (il pontino talmente basso da dover flettere le gambe, piegare in avanti la schiena e pregare la divinità ortopedica che protegge i viventi dai colpi della strega), sbucare in via Candido Queirolo (oh, Tommaso!), questione di metri, costeggiare il Ligure e il mare.
 Il mare, il bagnasciuga e poi la sabbia: fare un buco non tanto fondo, fingendo di avere tra le mani una paletta bambina e cercare di non sentirmi io stesso o le mie indagini un buco nella sabbia. 

Andava verso un sottopassaggio della ferrovia, molto basso; ha dovuto chinarsi per riuscire di là, e lo ha fatto senza scomporsi, ossia senza scompaginarsi, in più mostrando nell’atto vezzi insospettati. Di là c’è la grande via; s’è arrestata alla fermata dell’autobus per la città. Non sapevo esattamente che fare, ad ogni modo mi son messo anch’io ad aspettare l’autobus, discosto alcuni passi e facendo le. viste di non conoscerla. L’autobus è arrivato, siamo saliti; non mi guardava tuttavia, certo temendo la presenza di gente del suo quartiere. Era notte ormai; mi sentivo sempre più miserabile e indegno nella luce torbida delle lampadine.
– LA MUTA, di T. Landolfi. 

APPUNTAZIONE (VOYEURISTICA)
Il pontino romano esiste ancora oggi, ma con le varie trasformazioni urbanistiche esso è meno, molto meno attraversato; fino a quindici anni fa era considerato uno dei transiti rientranti nella normalità per poter meravigliarsi della vista del mare, malgrado il colpo della strega fosse sempre in agguato. Ma in agguato, o meglio appostati a civetta, vi erano sempre degli uomini, pochissimi in verità, in attesa che una ragazzina si apprestasse a varcare le forche di sobborgo, che chinandosi, pur senza scomporsi, involontariamente qualcosa del di dietro femminile mostravano: vezzi o non vezzi inaspettati, e a occhi fissi a quel di dietro c’erano occhi di civetta maschili, che a quella vista subivano un turbamento endocrino, che, inviando messaggi precisi all’arto superiore, indicava (alla mano) la direzione giusta per poter giungere al turgido celato sotto il pastrano.  

Altro esempio è l’ex passaggio a livello nei pressi dell’ex-stazione ferroviaria spostata a monte nel 2000, ma ovviamente presente negli anni Sessanta e più volte citato da Landolfi, e addirittura a poco dall’inizio del diario “armasco” DES MOIS:
(Riporto da Capped Dice) 

[…] Ritornerò, ritornerò e tante le volte – ma avrei dovuto già prima e tante le volte, un granello di forza o coraggio, a spigolare up to date sulla stazione ferroviaria che adesso è a monte (fra le cosce sospette della Valle Argentina) e del passaggio a livello che è ora divelto: 

Stavo incerto all’angolo [lumeggiando all’inizio via Queirolo, che interseca con via Eroi Armaschi] di una strada (e al gelo di questa riviera), quando per compenso del mio scoramento è passata di corsa una fanciulla; una scolara con libri, che certo s’affrettava alla fermata del filobus. Poiché avevano già spento le luci ed era quasi buio, e lei correva senza rumore, è sorta dal fondo della strada [via Nazario Sauro]. Una giovinetta che corre. Questa nel suo moto scopriva le gambe ben più su del ginocchio, e la sua leggerezza era mirabile… il passaggio a livello era chiuso, ha dovuto passare sotto le sbarre… Donde viene loro quella meravigliosa coerenza di movimenti, quell’accorgersi e convenire di forme…  

Durante le tue ricerche, dalle voci delle persone viventi in Arma di Taggia, hai saputo qualcosa del suo tanto famigerato snobismo?

No, assolutamente niente, e per un certo verso aggiungo per fortuna, non sono attratto dalle persone snob o dandy, che sono però altra cosa… Io sono una persona alla mano, un selvatico educato.

A differenza del tuo libro, che è intriso di maleducata altezzosità e imperante snobismo… tant’è che Giuseppe Conte, nell’articolo prima citato, scrive «che sin dal titolo “dadi nascosti” non saprei dire a che genere appartiene: diario, inchiesta, critica, documentario, romanzo, auto-fiction, non-fiction, un libro che prende il lettore e gli infila la testa in un turbine, lo attrae come una ventosa, lo schiaffeggia con amore e rabbia, gli sputa addosso, lo indispone, lo fa ridere sino a singhiozzare».

Convengo, potrei convenire con la maleducata altezzosità, che è indirizzata non a caso, ma non è questa l’intervista idonea per approfondire o tediare, ma è scontato che mi riferisco a lettori che non saranno mai miei lettori, dato che sono abituati a leggere altro dal mio libro… e che sia un libro snob lo certifico… ho cercato di alzare l’asticella, sull’esito non saprei, ma intanto ci ho provato: da autore snob quale fieramente sono, o follemente sono.

Nell’intervista apparsa il 25 gennaio 2022 su “La poesia e lo spirito” (www.lapoesiaelospirito.it/2022/01/25/marino-magliani-intervista-lamberto-garzia/), nel parlare del libro appena uscito, che è a tutti gli effetti decisamente spiazzante, avevi detto: “Ad essere sincero questo libro che mi sono ritrovato tra le mani, un oggetto ingombrante, una Cosa difficile da definire… e che non so bene definire… e se in forma colloquiale dico che un è acido senza o non esagerata assunzione di acidi o come la sinfonia wagneriana de Le Valchirie suonata a ritmo infernale Heavy Metal… […] Certamente potrebbe apparire un genere o sottogenere «nuovo» fecondato in vitro, un Grafted Diary, che post-parto è Cosa che potrebbe divenire o già è Cosa gemellare o trigemina, e nel peggior dei casi una Cosa deforme, che potrebbe benissimo e giustamente essere abbandonata sul monte Taigeto, e lì dimenticato… Ma anche in questo caso, sulla Cosa deforme o meno, non credo di aver aggiunto molto…”.
Adesso, che è trascorso un poco di tempo, la pensi ancora in questo modo, o sei riuscito, magari nel confronto con altri o nello scrivere di altri del tuo lavoro, a rendere questa Cosa un oggetto meno ingombrante?

In verità non vi è stato alcun confronto approfondito, e che io sappia, stando all’oggi, nessuno ha ancora scritto qualcosa di approfondito, tranne il grande poeta Giuseppe Conte il 3 marzo su Il Giornale, che ringrazio pubblicamente (www.ilgiornale.it/news/spettacoli/lamberto-garzia-punta-tutto-su-tommaso-landolfi-2014465.html), quindi questa Cosa ingombrante è ancora qui tra le mie mani, che vorrei precisare fosse da intendere come «oggetto capace di creare impaccio alla mente, offuscarla»… Anche se in verità – se lo si vuole intendere come cosa ingombrante, nel senso che è, tale prodotto editoriale, di difficile collocazione in taluni schemi/scaffali, caratterizzati dall’avere-essere preconcetti/prefabbricati – è venuto meno, in me autore, quel senso di “imbarazzo” [Vd. DIZIONARIO DEI SINONIMI di Niccolò Tommaseo: «Imbarazzo è superflua o incomoda interposizione di cose estranee a un oggetto , a un intento, che rende faticoso o difficile l’uso di quello o il conseguimento di questo»] che mi ha portato ad abbarrare strade possibili di accesso alla fortezza-libro (di cartapesta)…

E quindi… e cosa intendi col termine accesso?
Intendo, una volta tolti alcuni ostacoli, cercare di dare indicazione di accesso, di lettura, o accesso di lettura, ma due cose tengo a evidenziare: la prima è che, venendo dalla poesia, poco avvezzo sono a spiegare del come o del perché abbia scritto una determinata poesia, e quindi le mie non potranno che essere citazioni altre (di accademici illustri) o riformulazioni delle stesse, in aggiunta ad additazioni di percorso; la seconda, rifacendomi o riferendomi al critico letterario e pensatore americano Fredric Jameson [«L’emancipazione del “romanzo realistico” dalle sue restrizioni di genere (nel racconto, nella lettera, nel récit inventato); l’emergere, prima, del modernismo, con il suo ideale joyciano o mallarméano di un singolo Libro del mondo, e poi dell’estetica postmoderna del testo o dell’écriture, della “produttività testuale” o della scrittura schizofrenica; tutto sembra escludere rigorosamente le nozioni tradizionali dei generi letterari, o di sistemi di belle arti, tanto nella loro pratica quanto nella loro teoria… Con l’eliminazione di uno status sociale istituzionalizzato per il produttore di cultura e con l’apertura dell’opera d’arte stessa alla mercificazione, le precedenti specificazioni di genere sono trasformate in un sistema nuovo di zecca contro cui ogni espressione artistica autentica deve necessariamente lottare… I generi sono essenzialmente istituzioni letterarie, (offerti e vittimati dalla) progressiva penetrazione di un sistema di mercato e di un’economia monetaria – Da “The Political Unconscious: Narrative as a Socially Symbolic Act” (1985)], e abbassando il livello, o meglio riportandolo al mio livello intellettuale, che è quello che è, umilmente ritengo che all’autore, non più parte del postmodernismo, al di là di facili boutade (…ma io del mercato editoriale mene frego o quanto altro e di simile, o ma chi se ne frega dei generi preconcetti e via discorrere in disgressioni e siano sempre benedetti i latinismi), manchi quella capacità (coraggiosa o meno) di ritrovare/riprovare a sentirsi signator… e a questo punto parlo con le parole del filosofo Giorgio Agamben, cavate dal libro Signatura rerum – Sul metodo, che meglio dicono quel che nel sottinteso vorrei dire:

…Abbiamo lasciato per ultima la trattazione che, nel De signatura rerum, occupa il primo posto, cioè quella delle segnature il cui signator è l’uomo. L’esemplificazione che Paracelso ne dà è forse il capitolo più sorprendente nella storia del concetto di segnatura, anche se, prima di conoscere una provvisoria resurrezione nel pensiero di Foucault e di Melandri, esso è rimasto per secoli come una sorta di binario morto dell’episteme paracelsiana. Per poter comprendere correttamente le segnature naturali e soprannaturali, scrive Paracelso, occorre comprendere innanzi tutto quelle il cui signator è l’uomo… Decisamente più interessante è un altro gruppo di esempi, in cui il paradigma della segnatura riceve un’ulteriore complicazione. Si tratta, innanzi tutto, delle «marche o segni» (Markt und Zeichen) con cui l’artigiano contrassegna i suoi lavori « affinché ciascuno possa riconoscere chi ha fatto l’opera». Qui la segnatura mostra la sua proba bile connessione etimologica con l’atto di firmare un documento, evidente in quelle lingue, come il francese e l’inglese, in cui firma si dice, appunto, signature (signaturae, in diritto canonico, erano i rescritti concessi dal papa attraverso la semplice apposizione della firma sul documento). Ma signare significa in latino anche «coniare» e un altro esempio su cui Paracelso si sofferma è quello dei segni che indicano il valore delle monete: «Così sappiamo che ogni moneta ha un saggio e un segno particolare, da cui si riconosce il valore che è stato battuto» (ibid.). Quanto al sigillo impresso su una lettera, esso non serve tanto a identificare il mittente, quanto a significare la sua «forza» (Krajft): «il sigillo è la conferma e la convalida della lettera, perché si possa dare fede ad essa secondo il diritto e senza il sigillo la lettera è inutile, morta e senza valore» (Paracelso, III, 2, 330). Segnature del signator uomo sono anche le lettere dell’alfabeto, «con un piccolo numero delle quali si possono segnare con parole e nomi molte cose, come avviene per i libri, che vengono segnati a memoria con una sola parola o con un nome, in modo che il loro contenuto sia subito noto» (ibid.,331)… Proviamo a svolgere e analizzare la struttura singolare delle segnature umane. Sia la segnatura (firma o monogramma) con cui l’artigiano (o l’artista) marca la sua opera. Che cosa avviene quando, mentre osserviamo un quadro nella sala di un museo, ci accorgiamo che in un cartiglio posto nella sua parte inferiore si legge la scritta Titianus fecit? Noi siamo oggi così abituati a cercare e ricevere questo tipo d’informazione, che non prestiamo attenzione all’operazione non banale implicita nella segnatura. Si dia il caso che il quadro rappresenti un’annunciazione, che può essere vista essa stessa come un segno o un’immagine, che rimanda a una tradizione religiosa e a un tema iconografico che, in questo caso, ci sono familiari (ma che potrebbero non esserlo). Che cosa aggiunge la segnatura Titianus fecit al segno «annunciazione» che abbiamo davanti agli occhi? Essa non ci dice nulla che concerna il suo significato teologico o il modo in cui il tema iconografico è stato trattato, nulla che riguardi le proprietà della cosa nella sua materialità oggettuale. La segnatura si limita a mettere in relazione il quadro col nome di un uomo, che sappiamo essere un celebre pittore vissuto a Venezia nel XVI secolo (in altri casi, potrebbe trattarsi di un nome del cui portatore non sappiamo nulla o quasi). Se essa mancasse il quadro rimarrebbe assolutamente immutato nella sua materialità e nella sua qualità. Eppure la relazione introdotta dalla segnatura è, nella nostra cultura, così importante (in altre potrebbe non esserlo e l’opera vivere nel più completo anonimato), che la lettura del cartiglio cambia radicalmente il nostro modo di guardare il quadro in questione. Di più: se si tratta di un’opera che rientra nei termini cronologici del diritto d’autore, la segnatura implica allora il prodursi delle conseguenze giuridiche che da quello dipendono… Sia, ora, l’esempio della segnatura impressa sulla moneta, che ne determina il valore. Anche in questo caso, essa non ha alcuna relazione sostanziale col piccolo oggetto metallico di forma circolare che teniamo fra le mani, non aggiunge ad esso alcuna proprietà reale. E, tuttavia, anche questa volta essa cambia in modo decisivo il nostro rapporto con quello e la sua funzione nella società. Come, nel caso del quadro di Tiziano, la segnatura, senza alterarlo in alcun modo nella sua materialità, lo iscriveva nel complesso reticolo delle relazioni di «autorità», essa trasforma ora un pezzo di metallo in moneta, lo produce come denaro”.

Andrea Cortellessa (professore universitario, critico letterario): 
Il “vero” romanzo, mi piace dire sempre, è come uno squalo. È lui l’animale Alfa dell’acquario letterario, ma perché possa andare avanti e sopravvivere deve continuamente ingoiare qualcosa di diverso da sé, assimilare l’ambiente che lo circonda. Il romanzo deve essere in grado di “romanzizzare” tutto quello che tocca, fare proprio ogni genere del discorso: dalla storia recente alla speculazione filosofica, politica e magari teologica, e alle immagini, convocate in effigie o in ècfrasi. Ma soprattutto dev’essere in grado di fagocitare ogni altro genere letterario: poesia, teatro, saggio, autobiografia, ecc. (Fonte: vibrisse.wordpress.com/2015/11/09/modernita-e-postmodernita-di-mario-pomilio/)
Se «il romanzo deve essere in grado di “romanzizzare” (questo termine mi piace, arbitrariamente, poterlo anche interpretare come “romanizzare”, pronto ad assimilare/fagocitare, ma anche, in riecheggio, come il bachtiniano “romanizzazione”, indispensabile, nella sua inclinazione di Anima, a setacciare il richiesto dovuto, poco prima fagocitato) tutto quello che tocca», l’autore dovrebbe essere anche in grado, sorvolando in questo frangente sulla riuscita o meno della signatura, a ritrovare/riprovare a sentirsi signator.

Émile Zola (scrittore francese)
 «Il romanzo sperimentale è conseguenza dell’evoluzione scientifica del secolo: esso continua e completa la fisiologia, che a sua volta si basa sulla chimica e sulla fisica; sostituisce allo studio dell’uomo astratto, dell’uomo metafisico, lo studio dell’uomo come fatto di natura, sottoposto alle leggi chimico-fisiche e determinato dalle influenze dell’ambiente; è, in una parola, la letteratura dell’età scientifica, come la letteratura classica e romantica corrispondeva all’età della scolastica e della teologia» – Fonte: Le Roman expérimental.
Al giorno d’oggi l’avrebbe scritto (forse) nel seguente modo: «Il romanzo sperimentale è conseguenza dell’evoluzione INFORMATICA dell’ultimo ventennio del terzo millennio: esso continua e completa la neurofisiologia, che a sua volta si basa sulle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione; sostituisce allo studio dell’uomo astratto, dell’uomo metafisico, lo studio dell’uomo come fatto(si) virtuale, sottoposto e determinato dalle influenze del non – ambiente, è, in una parola, la letteratura dell’età INFORMATICA, come la letteratura classica e romantica corrispondeva all’età della scolastica e della teologia») 

Boris Tomasevskij (filologo, critico letterario)
«La situazione finale di ogni novella è, allo stesso tempo, quella iniziale della novella successiva; così, nelle novelle intermedie, non c’è esposizione e lo scioglimento è incompleto. Per mantenere un ordine progressivo nel romanzo è necessario che ogni nuova novella ampli il proprio materiale tematico rispetto a quella precedente (ad esempio, ogni nuova avventura deve attirare personaggi sempre nuovi nella sfera d’azione del protagonista), o che ogni nuova avventura dell’eroe sia più complessa e difficile della precedente.
Un romanzo così costruito si chiama a gradini o a catena». -Fonte: Teoria della letteratura.

  E’ quello che nel libro ho cercato di fare, a prescindere o meno del valore, che ho cercato di seguire in ottica dell’Età Informatica, dove quel «mantenere un ordine progressivo nel romanzo è necessario che ogni nuova novella ampli il proprio materiale tematico rispetto a quella precedente», ha dovuto necessariamente (credo involontariamente) seguire le linee guida (fatte a cenno e non accennate) di questo periodo, che definisco Periodo in Ragnaia spenzolata: esempio principe e chiarificatore è rappresentato nel web (ragnatela intorno al mondo), e il modo di ricercare “qualcosa”, passando (navigando) da una all’altra pagina/sito/onda, raggiungendo alla fine il risultato prefissatosi (al di là o meno della qualità del risultato), che, malgrado la navigazione sia stata non di certo in bonaccia.

Potrebbe essere anche un modo per leggere il tuo libro?

Perché no, un po’ come il lancio casuale dei dadi, anche se nulla è casuale nei miei Shooting Dice, come non lo è nessuna parola, nel senso che, venendo dalla poesia, ogni singola parola ho cercato di caricarla di significato come se facesse parte di un verso, addirittura l’ultimo verso di un testo.

Come non è casuale, a inizio Diario, reiterare, nel citare di Tommaso Landolfi, il suo racconto capolavoro, “La moglie di Gogol”, che moglie vera e propria in carne e ossa non è, dato che viene descritta, dissacrando tutto e tutti, come una ante litteram Sex Doll al silicone… Scelta più che calcolata, perché, per chi è a conoscenza dell’opera, voleva e vuole essere un una chiara avvertenza, come dire: “Cari lettori, da ora in poi si entra nel Regno della Simulazione e Dissimulazione”. Giusto?

Mi appello al V Emendamento, quindi mi avvalgo della facoltà di non rispondere. 

Nell’intervista prima citata hai parlando del libro e hai detto che «un è acido senza o non esagerata assunzione di acidi»… cosa volevi intendere?

Nel libro la mia ombra dialogante femminile è chiamata Walki, Valchiria, Valki Kemi… diciamo che lei è il pusher di se stessa, che è dal sottoscritto acquistata… e… e non è che ci voglia troppa fantasia.

In che modo saluteresti i lettori della rivista, magari scusandoti, perché rileggendo l’intervista mi è parso chiaro, anche in relazione ad altre tue affermazioni, che il tuo continuo rimischiare le carte, dare false indicazioni non è venuto meno.

Lambertus fecit.

Alessia Bronico: Alessia Bronico (Atri, 1981) vive tra la Lombardia e l'Abruzzo, luogo delle sue origini. Ha pubblicato in poesia “L’abito della Felicità” (LietoColle, 2016), “Un dio Giallo” (LietoColle, 2018), è inserita in “Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea n. 5” (Raffaelli Editore, 2017).
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