Quando le belve arriveranno è un romanzo feroce, ma privo di cinismo. Racconta la vicenda di un trentenne, di cui non conosciamo il nome, che accetta l’incarico di docente di sostegno in una città del nord per allontanarsi dalla madre alcolizzata e da un contesto di squallore e quotidianità stagnante. Il protagonista osserva con una sorta di ammirazione la propria nonna, ridotta a vivere in uno stato semivegetativo e la cui esistenza sembra essere ridotta a puro sguardo.
Nella città in cui va a vivere, l’uomo incontra personaggi spregevoli, rancorosi, frustrati e carichi di odio represso, sia verso se stessi, sia verso gli altri. Non c’è spazio per le giuste cause, per la speranza o qualsivoglia forma di redenzione. I colleghi, la coppia ripugnante che affitta una stanza al protagonista, i cittadini e i commercianti condividono tutti lo stesso destino di progressivo degrado, di decadimento senza scampo.
James G. Ballard diceva che il mondo contemporaneo sarebbe stato quello della psicopatologia normalizzata. Alfredo Palomba condivide con l’autore inglese la freddezza clinica dello sguardo, la quasi assenza delle emozioni, ma con una sostanziale differenza: l’occhio del personaggio non cerca nulla, non ambisce a nulla, neppure all’estasi della pura origine inorganica, della mera forma – uno slancio comunque estetico che qui non abbiamo. Qui il degrado non è un’astrazione intellettuale, ma la constatazione di una regressione, di un ritorno non tanto a un nulla pacificante, ma a una natura ferina, bestiale, originaria.
Le macchie nere che compaiono sui corpi dei personaggi, in questo senso, hanno una valenza simbolica altissima. Come la macchia di sangue sulla chiave di Barbablù. Abbiamo fatto di tutto per nasconderla, ma prima o poi risorge, più dirompente che mai.
In questo contesto, sembra si salvi solo il ragazzino affetto da un grave ritardo cognitivo seguito dal protagonista. La civiltà è corrotta, ha in sé già il seme della propria dissoluzione. Non a caso, l’autore apre il romanzo con una citazione da Il signore delle mosche.
Può dunque il puro sguardo, quello del protagonista, ma anche quello dello scrittore, in un evidente rimando metanarrativo, sfuggire alla dissoluzione, alla corruzione degli uomini? E se, nel farlo, eludesse ogni forma del sentire? È davvero possibile vivere diventando uno schermo su cui passano le immagini di youtube o dei social network?
Si può vivere o solo sopravvivere, forse, nella ricerca di un distacco e di un disincanto mai del tutto possibili.