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Fiorella Malchiodi – Il comò

Comò realizzato da Alpini Gionatan

Guardo il comò nella mia stanza, e mi chiedo se all’origine degli ultimi eventi non ci sia proprio la comparsa di questo oggetto appoggiato alla parete, assurdamente rovesciato su un fianco. È un pensiero bizzarro, eppure tutto è cominciato quando questo mobile è tornato forzatamente in casa mia. Non c’è stato niente da fare: Lidia, la vicina che abita sul mio stesso pianerottolo, doveva vendere la cantina dove lo avevo relegato per anni e mi ha chiesto di riprendermelo. L’avrei lasciato volentieri in mezzo alla strada, per quanto me ne importava: un cassettone tutto istoriato, con i piedi a zampa di leone; proprio il mio stile!

Ma lei ha protestato: diceva che abbandonarlo sul marciapiede non era un comportamento civile. “Sai quanto me ne frega della civiltà” avrei voluto risponderle, ma ho taciuto. Non posso inimicarmi Lidia. La sua presenza discreta è cruciale nella mia vita, perché è lei che filtra i miei contatti con il mondo. Subito dopo il mio trasloco, quando si è accorta che non rispondevo mai né al citofono né al campanello, dapprima si è stupita, ovviamente, e ha cominciato a guardarmi con aria interrogativa; poi ha capito. È una donna intelligente e generosa, e non ho dovuto spiegarle, né chiederle niente. Spontaneamente, quando le scampanellate si fanno insistenti, risponde al mio posto e, se c’è un messaggio urgente, mi lascia un biglietto sotto la porta, con la massima discrezione. Non che ormai riceva granché, ma il fatto che esista questo baluardo mi è di grande conforto.

Così, per mantenere buoni i rapporti con Lidia, ho accettato di riportare il comò in casa, almeno finché non troverò il modo di sbarazzarmene definitivamente. E non c’era proprio nessun altro posto dove metterlo: dappertutto bloccava il passaggio o impediva l’apertura di porte o finestre. Alla fine l’unica soluzione è stata quella di girarlo su un fianco e di addossarlo al muro di fronte al mio letto, in modo che il battente della finestra non sia completamente ostruito e io possa girarci intorno.

Da subito, anche se solo ora me ne rendo conto, è stato una presenza estranea, anormale, e qualcosa si è incrinato. Come poteva una forma così irregolare, una tale stramberia, non alterare l’equilibrio fragilissimo della mia quotidianità, che sono riuscita a costruire anno dopo anno, con pazienza, sulle macerie della mia vita?
Mi guardo intorno e mi rendo conto di quanto la presenza del comò strida con la geometria inflessibile della mia casa, fatta di linee semplici e disadorne. La libreria chiusa, che mi è costata un mucchio di soldi, serve davvero a proteggere i libri dalla polvere? Così mi ero detta all’inizio, quando ancora non leggevo chiaramente dentro di me. Non era la polvere, a preoccuparmi: era l’eterogeneità delle centinaia di coste a infastidirmi, una diversa dall’altra per forma, dimensione e colore. Se ripenso a quanto tempo ho trascorso in balia di quella disturbante varietà provo un senso di malessere. Ora che è ben nascosta dietro spesse pareti di legno, so che esiste ma è lontana, sotto controllo, incapace di ferire il mio sguardo. E con quale gioia mi sono liberata di tutti i soprammobili idioti che popolavano le mie stanze; o degli oggetti esotici comprati nei viaggi, o dei regali inutili degli amici, che avevo accumulato con insipienza nel corso degli anni. Ho abbandonato borse intere di queli oggetti vicino al cassonetto, di notte; una volta, e poi un’altra, e un’altra ancora.

Finalmente le superfici dei miei mobili erano libere da quegli inutili orpelli! E i quadri, che uno ad uno ho regalato? Venivano i miei amici, quando ancora venivano, e ogni tanto proponevo a qualcuno: «Che ne dici di questo acquerello? Se vuoi te lo regalo!». Chi più ostinatamente, chi meno, tutti rifiutavano all’inizio, ma io mi prodigavo in spiegazioni, di volta in volta le più arzigogolate. «Guarda, mi faresti un vero favore. È da tempo che non lo sopporto più. Non so, mi sembra passato di moda». Oppure: «L’ha fatto un amico con cui ho litigato: se me lo togli dalla vista mi fai un regalo». O ancora: «Ma sei sicuro che ti piace? Una mucca sotto un albero? No, guarda, veramente, se te lo prendi, te ne sarò grata per la vita!». Gli ultimi li ho regalati ad una conoscente che doveva arredare una sala da tè; lei non è mai entrata in casa mia, così non ho dovuto giustificarmi delle pareti ormai vuote.

Ora non devo più dare spiegazioni: da tempo nessuno frequenta la mia casa. Ricordo bene una delle ultime volte. Alcuni amici mi avevano forzato a organizzare una cena. Avevo accettato a malincuore:,sopportavo a fatica le riunioni durante le quali dovevo adeguarmi al buonumore generale. Alla fine, il gruppo degli amici più stretti (certo si erano messi d’accordo prima: tutti a parlarmi dietro le spalle, i miei cosiddetti amici!) ha cominciato a redarguirmi: e perché esci così poco, e perché hai smesso di venire al cinema, perché non fai più le vacanze con noi… una tale filippica! Ho dovuto resistere alla tentazione di sbatterli fuori a calci. “Ma che ne sapete voi della mia vita?”, avrei voluto rispondere. Ce n’era uno, specialmente, con un modo di fare lamentevole e ruffiano: «Ma perché ci vuoi privare della tua amicizia?». “Ma quale amicizia!”, avrei voluto gridargli in faccia. Invece ho ascoltato, pazientemente, assentendo, mostrandomi colpita dalle loro rimostranze, rattristata e anche un po’ sorpresa, come se fosse la prima volta che ragionavo sulla mia solitudine; infine riconoscente per il loro interessamento, promettendo di cambiare. Se ne sono andati contenti, sollevati: avevano compiuto la loro buona azione quotidiana.

Chiusa la porta, che gusto cancellare i loro nomi, uno a uno, dalla rubrica del cellulare! Devono aver provato a chiamarmi, dopo quella sera: ma oramai per me erano tutti numeri sconosciuti. Non ho mai risposto, e alla fine le telefonate sono cessate. Finalmente sola: che sollievo! Avevo raggiunto il mio scopo: un ordine quasi perfetto, nella casa come nella vita, che mi era costato anni di tentativi, di prove, di miglioramenti progressivi; ma era tutto così ben organizzato, un meccanismo che funzionava alla perfezione. Poi, all’improvviso, la presenza importuna: questo stupido oggetto ingombrante – il primo che vedo quando apro gli occhi la mattina – che rischia di mandare tutto all’aria.

Proprio il giorno dopo il suo arrivo è avvenuto il primo cambiamento: non può essere stata una coincidenza. Stavo ancora guardandomi intorno nell’ingresso, per vedere se riuscivo a trovargli una sistemazione, quando è suonato il citofono. Ero proprio lì accanto e, senza accorgermene, come per un riflesso antico che credevo sopito, ho spinto il pulsante e aperto il portone. Il suono metallico mi ha fatto trasalire. “Oddio”, mi sono detta, “ma che mi è preso?”.

Ho udito la porta di Lidia che si apriva; di certo si stava chiedendo perché avessi aperto, mentre dei passi salivano per la scala. Non sapevo che fare. Volevo scappare, rintanarmi sotto le coperte; invece sono rimasta ad ascoltare, dietro la porta chiusa, i passi che si avvicinavano; e poi quella voce che parlava con Lidia, che doveva essersi affacciata sul pianerottolo.
«Salve, sono Alberto Signori, il nuovo inquilino del piano di sopra. Mi spiace averla disturbata, ma il padrone di casa non mi ha ancora dato le chiavi del portone».
«Non si preoccupi», ha risposto Lidia. Poi ci sono state le presentazioni di rito e ho appreso che il nuovo vicino è un critico cinematografico che lavora prevalentemente in casa, come me.

“Questo non ci voleva”, ho pensato. Gli altri inquilini hanno una vita regolata dagli orari d’ufficio, e so quando uscire per evitare di incontrarli; ma questo avrebbe avuto comportamenti imprevedibili: come niente me lo sarei ritrovato davanti quando uscivo la sera tardi, per andare a prendere i soldi al bancomat. In realtà sono passati diversi giorni senza che lo incontrassi, con mio grande sollievo. Sollievo? Ora che ci penso, forse non era proprio sollievo. Avvertivo la sua presenza nell’appartamento sopra al mio, a volte una musica, ma molto lontana, che non mi disturbava. Udivo anche i suoi passi leggeri, quasi felpati. “Che sia un gatto?” pensavo.

Dopo una decina di giorni, di mattina, entro nel soggiorno e noto un oggetto scuro appoggiato sul davanzale della finestra, dietro i vetri. Apro le ante e scopro un calzino a scacchi, tipicamente maschile. Sporgendomi a guardare in alto, constato che il nuovo inquilino ha messo ad asciugare il bucato su un piccolo stenditoio, di quelli che si murano sotto le finestre. Prendo il calzino ed esco, per lasciarglielo appeso alla maniglia della porta; ma, arrivata lì, mi accorgo che la sua porta non ha maniglie. Che faccio? Glielo lascio sullo stuoino? O scendo a metterlo nella cassetta delle lettere? Magari non ci entra.
Mentre sono lì che mi arrovello, la porta si apre e il vicino si affaccia. «Ah, l’ha trovato! Mi scusi tanto, non ho ancora comprato le mollette. Vuole entrare? Le posso offrire un caffè?». Mi prende il calzino dalle mani e si scosta per farmi entrare.

Io rimango impietrita: vorrei scendere a scapicollo; oppure no? Me ne sto lì, imbambolata, e sento la musica che sta ascoltando, e la riconosco. Vorrei dire: “La ringrazio, non si disturbi”, ma un’altra frase mi esce dalla bocca, e non credo alle mie stesse orecchie. Dico: «Le parole del profeta sono scritte sui muri della metropolitana».
Lui mi guarda sorridendo. Annuisce e continua: «E sugli ingressi delle case popolari. Un grande musicista ma anche un grande poeta, Paul Simon, non è d’accordo?».
Faccio cenno di sì, mentre mi chiedo da quale anfratto della mia memoria sia fluito quel ricordo. Da quanto tempo non ascolto quella canzone, che amavo tanto? E perché ho smesso di ascoltarla? Eppure ancora ne ricordo le parole.
Ora la confusione è davvero troppa: mi giro e faccio le scale a ritroso di gran fretta, mi chiudo la porta alle spalle, mi butto sul letto e mi metto il cuscino sulla testa. Non voglio pensare più a niente, più a niente, a niente.

Dopo un po’ mi scuoto, riapro gli occhi, e lo sguardo mi cade sul comò. È allora che mi è nato il sospetto: «È tutta colpa tua! Hai deciso di rovinarmi la vita?».
Ieri il vicino mi ha messo un biglietto sotto la porta. Ho trovato su You Tube la registrazione del concerto di Central Park. Se vuole lo ascoltiamo insieme. Non c’è bisogno di parlare.
Avrà chiesto a Lidia e lei gli avrà spiegato. Mi avrà descritto come un’autistica? Ciò nonostante non sono arrabbiata con lei. Mi rigiro il biglietto fra le mani e mi sento confusa e agitata; ma in fondo in fondo, sotto cumuli di paure, di incertezze, di disillusioni, c’è anche una lievissima tentazione. E un’esile aspettativa.

 

Fiorella Malchiodi: È nata e vive a Roma. Laureata in medicina, lavora in un istituto pubblico di ricerca. Da alcuni anni si è appassionata alla scrittura di racconti e memoir. Ha partecipato ad un’edizione di “8x8” e alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su Il paradiso degli Orchi, L’irrequieto, Verde.
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