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Marcello Sorgi – San Berlinguer

San Berlinguer di Marcello Sorgi è certamente un libro appassionante e che merita qualche riflessione. Non è un caso che sia uscito nel 2024, a quarant’anni dalla morte del famoso segretario del PCI. Il titolo però potrebbe trarre in inganno: paragonare la figura di Berlinguer a quella di un santo sembrerebbe suggerire un intento strafottente e sarcastico; intento che, a ben pensare, sarebbe più che comprensibile, dato che presso la quasi totalità delle élite intellettuali del Paese, nonché presso gran parte dell’opinione pubblica, la figura di Berlinguer è ammantata da un’agiografia di tipo sostanzialmente emotivo, sentimentale e nostalgico, difficile o impossibile da spiegare in termini razionali.
In realtà, leggendo il libro è chiaro che l’intento dell’autore, il quale conobbe il famoso segretario da giovanissimo cronista del giornale palermitano L’ora, è certamente quello di presentare un ricordo personale, nonché il resoconto di un pezzo di Storia italiana narrato da un giornalista che vi si è trovato, per così dire, buttato dentro, prima in Sicilia, poi a Roma e in altre parti d’Italia. Ma San Berlinguer non è solo questo: è anche una specie di romanzo di formazione, l’autobiografia di un giovanissimo reporter (all’inizio della storia non ha più di diciassette anni) che inizia la sua carriera in una Palermo insanguinata dalla mafia, dove una scrivania della sua redazione è perennemente vuota, dato che apparteneva a un collega sequestrato da cosa nostra e mai più ritrovato. Leggere della dedizione di un giornalista-ragazzino che la mattina si fa tutti gli ospedali della città per capire se dietro una ferita d’arma da taglio o da fuoco vi sia una “storia” da raccontare fa desiderare che tutto il mondo della stampa sia così coraggioso. Ma c’è di più: infatti l’autore racconta anche di quando, da giovane, durante una delle sue ricognizioni per i pronto soccorsi, gli capitò d’imbattersi nel suo primo morto ammazzato e, com’è più che comprensibile, sentì il bisogno di uscire dalla stanza per riprendersi dallo sgomento.

Un libro che lascia molti perché
Oltre al suo personale e appassionante viaggio all’interno della Storia, Marcello Sorgi presenta anche alcuni lati della segreteria Berlinguer che di solito vengono ignorati, come l’antipatia di una parte della base del partito verso il cosiddetto “compromesso storico”, nonché una certa arroganza del segretario nei confronti della stampa («Rivolgetevi all’ufficio stampa» pare fosse la sua abituale risposta a chiunque gli ponesse una domanda; salvo il fatto che l’ufficio stampa non rivelava mai niente di sostanziale). Curioso anche un suo certo maschilismo, che lo vide in fondo contrario al referendum sul divorzio e convinto che le donne del PCI dovessero ispirarsi a Maria Goretti. Eppure, la descrizione iniziale, disponibile anche sul sito della casa editrice, stimola curiosità che non vengono soddisfatte adeguatamente.
«Perché ancora oggi la sinistra italiana ha bisogno di coltivare il mito di Berlinguer?». Così viene presentato il libro: eppure, leggendolo non si trova una vera e propria risposta a questa domanda. La descrizione iniziale dice anche che il libro intende contrapporre «la storia alla leggenda e la cronaca all’agiografia». «Nell’osservare così da vicino il mausoleo dell’”ultimo capo del popolo comunista” – continua la descrizione – sarà impossibile non riconoscerne le crepe, né evitare di interrogarsi sulle ragioni per cui, ancora oggi, la sinistra italiana continua a vivere nella sua ombra».
Benché alcune crepe nell’immagine del segretario vengano effettivamente presentate, come vedremo, esse non sembrano però approfondite a sufficienza: non riescono cioè a uscire completamente da quell’agiografia imperante dalla quale pure ci si vorrebbe smarcare. Inoltre, è possibile che con questo libro un lettore sia stimolato a interrogarsi sulle ragioni per cui l’odierna sinistra italiana ha ancora bisogno dell’ombra di Sant’Enrico ma, appunto, non vi sono risposte precise a questi interrogativi.[1]  

Il “compromesso storico”: un tentativo giusto?
Pertanto, può essere utile tentare di dare qualche risposta dove esse mancano, ed è impossibile non partire da come il “compromesso storico” fu accolto all’interno del PCI. Inaugurata con i famosi articoli sul Cile del 1973, l’originale politica di avvicinamento del PCI alla DC è ancora oggi ammantata da un alone di leggenda, che rende difficili se non impossibili le considerazioni oggettive. Nel suo libro Il sarto di Ulm, Lucio Magri ha criticato l’idea berlingueriana secondo la quale questo avvicinamento fosse necessario per sventare un colpo di Stato di destra. Insomma, le condizioni dell’Italia erano ben diverse da quelle del Cile, secondo Magri (altra questione è quanta responsabilità avesse la DC nella strategia della tensione, tema assai complesso che non può essere approfondito qui).
Dal punto di vista dei giornalisti dell’Ora, invece, la questione era ancora più diretta. Si trattava infatti di un piccolo giornale antimafia di proprietà del PCI, la cui missione era proprio quella di denunciare il connubio organico fra la DC e cosa nostra in Sicilia (dal canto suo, Peppino Impastato parlava di «regime mafia-DC», e forse non esagerava). Come abbiamo visto, quest’opera di denuncia era costata all’Ora un sequestro di persona, ma anche un attentato con l’esplosivo da parte del famoso boss Luciano Liggio. Pertanto, potete immaginare la reazione perplessa di questi giornalisti quando gli venne detto che adesso bisognava collaborare proprio con quella DC filo-mafiosa che sino a quel momento non avevano fatto altro che denunciare. E a poco serviva tenere i famosi articoli sul Cile eternamente in mostra su una scrivania, come fossero una sorta di bibbia. In realtà, anche all’interno del PCI ci fu chi temeva che con questa politica non si sarebbe ottenuto nulla. Più prosaicamente, altri la definivano «una cazzata». 

Moro e Berlinguer
Una parte del racconto particolarmente delicata e avvincente è quella del sequestro Moro e delle sue conseguenze. Quel giorno di primavera del 1978, al giovane Sorgi era stato dato l’incarico di fare un’inchiesta su che cosa pensassero i giovani di Palermo dell’avvenimento. Fatto un giro delle scuole, e trovatele vuote sia dentro che fuori, il reporter pensò allora di andare a una spiaggia locale, sulla quale infatti erano presenti numerosi giovani. Che ci si creda o meno, le reazioni raccolte andavano dall’indifferenza («non me ne importa niente») all’accordo («hanno fatto bene»).[2] Sorgi non poté far altro che riportare queste opinioni, il che gli costò una sfuriata dal suo capo: come si poteva scrivere un articolo così «sconsiderato»? Al di là delle riflessioni a posteriori, è un dato interessante che all’epoca qualcuno la pensasse in questo modo.
Ma la Sicilia fu collegata alla sorte di Moro anche perché proprio lo stesso giorno della sua morte fu ucciso anche il succitato Peppino Impastato, il comunista di Cinisi reso famoso dal film di Marco Tullio Giordana. Recatosi sul posto, Sorgi trovò i compagni di Impastato in lacrime, a protestare che la sua morte era tutta una messa in scena (infatti, secondo il piano del boss Badalamenti, bisognava far credere che Impastato fosse morto mentre tentava di mettere una bomba). In quell’occasione, Sorgi dovette insistere perché sull’Ora si parlasse anche della morte di quel giovane comunista, riuscendo infine a ottenere qualche decina di righe.
Il libro ripercorre i giorni del sequestro Moro sottolineando la linea di rifiuto del PCI verso qualunque trattativa con le BR. Per inciso, autori piuttosto scomodi come Elisa Santalena, Paolo Persichetti e Marco Clementi hanno notato che, da parte di Berlinguer e di altri dirigenti del PCI, vi furono delle reazioni di una durezza inaspettata alla notizia che, per aver salva la vita, Moro chiedeva esplicitamente nelle sue lettere di trattare con le BR.[3]  
«Moro per noi è morto», disse Berlinguer a un comandante dei carabinieri, il quale ricevette un commento ancora più pesante da parte dell’onorevole Piccoli: «Se dovesse ritornare, per noi sono dolori».
«Come, dolori?» rispose il comandante.
«Sa, perché noi politicamente ormai abbiamo perso il nostro presidente».
Al che il carabiniere rispose: «Lei mi demotiva, adesso. Allora è inutile lavorare. Noi ci dobbiamo aspettare la fine tragica, drammatica di quest’uomo».[4] 
Pur contando che si tratta di affermazioni fatte in un contesto particolarmente tragico e provante, esse gettano una luce un po’ diversa sul segretario del PCI. Più in generale, la quasi totalità dell’opinione pubblica italiana ritiene le BR responsabili della fine del “compromesso storico”: uccidendo Moro, che era convintamente favorevole a quella politica, la resero di fatto impossibile. Per dirla con le parole di un anziano poligrafico col quale interloquì Sorgi, la fine del “compromesso storico” era imputabile a una congiura di «fiji de’ mignotta», categoria nella quale rientravano sia le BR, sia i democristiani contrari al compromesso.
Eppure, analizzando attentamente le fonti dell’epoca, il succitato Persichetti è giunto alla conclusione che l’idea di Moro e Berlinguer amici e strettamente alleati è falsata dalle comprensibili conseguenze della morte del primo. Proprio nei giorni immediatamente precedenti al sequestro, in realtà Moro era venuto meno alle promesse fatte al PCI per una teorica partecipazione al governo, lasciando furibondi i dirigenti, incluso Berlinguer. Del resto, ciò è facilmente verificabile leggendo i commenti sull’Unità di quei giorni.[5] Come Moro aveva detto all’allora ambasciatore americano, la sua intenzione era quella di «guadagnare altro tempo. Ci sarebbe voluto almeno un anno per creare un clima elettorale in cui il PCI avrebbe subito una pesante sconfitta e la DC una netta vittoria. Il trucco stava nel trovare un modo per tenere il PCI in una maggioranza parlamentare senza farlo entrare nel Consiglio dei ministri».[6]   
Insomma, chi nel PCI sin dall’inizio sosteneva che il partito non avrebbe guadagnato niente dal tentativo di compromesso (un «edificio pieno di crepe» che sarebbe solo servito a farsi logorare) aveva ragione, oggi lo si può dire a posteriori. Questa verità, purtroppo, non può essere raccontata (e anzi, è presumibile che chi si permettesse di parlarne subirebbe conseguenze spiacevoli) perché va contro l’immagine edulcorata che si dà di entrambi i leader. Ciò è comprensibile perché, se il segretario del PCI morì in seguito a un malore avuto nell’adempimento del dovere (mentre pronunciava un discorso), la morte tragica di Moro rende ancora più difficile una lettura spassionata della sua azione politica precedente il sequestro. Più in generale, Marco Clementi aveva ragione da vendere quando, in suo libro uscito nel 2007, diceva che la storia delle BR (ma l’affermazione è valida anche per il contesto generale) è stata schiacciata sul caso Moro, non sottoponendo né gli eventi precedenti, né quelli successivi a un’analisi precisa e accurata.[7]   
Sorgi riporta altri dettagli estremamente interessanti, come il fatto che Pio La Torre, autorevole membro del PCI siciliano assassinato dalla mafia nel 1982, era fortemente contrario all’avvicinamento alla DC. E i suoi sentimenti dovevano essere condivisi da non pochi dei suoi compagni, dato che ai suoi funerali la folla non si fece scrupolo di fischiare Berlinguer (e il segretario capì benissimo qual era il motivo). Ma l’autore parla anche delle «oscillazioni» di Berlinguer sulla questione della NATO, prima definita un ombrello tutto sommato più sicuro di quello sovietico, poi osteggiata sulla questioni dei missili a Comiso. Altro punto d’interesse sono i finanziamenti segreti che l’URSS dette al PCI almeno fino al 1977, com’è stato poi rivelato dallo stesso responsabile interno in un libro chiamato L’oro di Mosca.[8] Dato che il rublo non era una valuta utilizzabile in Italia, i soldi arrivano in dollari e venivano cambiati a Roma.

Austerità e lotta armata
Un altro punto dolente della politica di Berlinguer è stata la sua idea di austerità, cioè la richiesta di «sacrifici alla parte più debole della società», sentita come un «vicolo cieco» da molti lavoratori che pure votavano PCI. Addirittura, Sorgi dice che il segretario avrebbe riconosciuto, nel settembre del 1978, che la scelta della lotta armata fu «in qualche modo frutto anche della [sua] politica», «come se appunto si fosse finalmente reso conto che il “compromesso storico” aveva escluso un pezzo di sinistra giovanile». Sorgi dice ancora di più: interrogandosi su queste frotte di ragazzi che dai licei e dalle università sono passati in clandestinità, o di operai che appendono gli striscioni delle BR dentro i capannoni delle fabbriche, fregandosene dei sorveglianti e delle conseguenze dei propri gesti, c’è una domanda che i compagni del PCI non vogliono rivolgere neppure a sé stessi: non sarà stato il «compromesso storico», non saranno stati l’austerità e i sacrifici chiesti a lavoratori che già faticavano ad arrivare alla fine del mese, a provocare la fuoriuscita verso la lotta armata […] che il PCI aveva da tempo […] abbandonato per sempre? La risposta a questa domanda, che pochi osano porsi, è «sì».
Forse, però, per capire il fenomeno della lotta armata non è sufficiente sottolineare il ruolo dell’austerità e dell’avvicinamento alla DC, per quanto siano stati fattori importanti. Né è sufficiente dare tutta la responsabilità al controverso membro del PCI Pietro Secchia, che secondo Sorgi sapeva dov’erano nascoste le armi dei partigiani non consegnate alla fine della guerra. In realtà, come ha notato lo storico Massimo Salvadori, sia il PCI, sia in misura minore il PSI sono sempre stati caratterizzati da una grande contraddizione: l’adozione di una retorica rivoluzionaria senza però l’elaborazione di una prassi rivoluzionaria.[9] Ed è in questa crepa che la lotta armata ha potuto inserirsi.[10] Basti pensare ai discorsi in cui Berlinguer, in modo davvero contraddittorio, cercava di «tenere insieme tutto: la rivoluzione d’Ottobre, la scelta della via nazionale al socialismo attraverso la democrazia, il polso fermo contro il terrorismo».[11] Certamente, la lotta armata non è stata una «forma di follia», ma un fenomeno studiabile come tanti altri (anche se il fatto che l’autore l’abbia vissuta personalmente lo autorizza certamente a dei giudizi particolarmente emotivi). 

Il PCI: un paese pulito in un Paese sporco?
Impossibile non aggiungere un commento sulla famosa e citatissima intervista fatta da Eugenio Scalfari a Berlinguer, pubblicata nel gennaio del 1981, in cui Berlinguer tracciava il quadro di quella che chiamava “questione morale”, cioè l’eccessiva, indebita presenza dei partiti anche in istituzioni pubbliche che avrebbero dovuto essere apartitiche. Secondo il segretario, i partiti erano ormai diventati soprattutto macchine di potere e di clientela […]. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi […]. I partiti hanno occupato […] gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai tv…
Quando Scalfari chiede al segretario se il PCI fosse più puro degli altri partiti, Berlinguer risponde: Le nostre occasioni le abbiamo avute anche noi, ma ladri non siamo diventati. Se avessimo voluto venderci, se avessimo voluto integrarci nel sistema di potere imperniato sulla DC e al quale partecipano gli altri partiti della pregiudiziale anticomunista, avremmo potuto farlo; ma la nostra risposta è stata no.
Un’ennesima, grande contraddizione: la DC, infatti, «che fino a due anni prima era considerato un alleato affidabile con cui stipulare un compromesso “storico” e costruire un governo di rinnovamento dell’Italia, adesso, per Berlinguer, è diventato responsabile di aver ridotto l’Italia a “un immondezzaio”». Ma non si tratta solo di questo, dato che l’intervista non è onesta anche da altri punti di vista. Intanto, come sottolinea giustamente Sorgi, anche il PCI incappava in finanziamenti illeciti. Inoltre, quando Berlinguer fustigava i partiti che avevano occupato le università, gli ospedali e gli istituti culturali, fingeva di non sapere che il suo partito si era comportato esattamente come gli altri. Chi come me ha avuto la sfortuna di lavorare nell’università italiana, infatti, sa benissimo che i cosiddetti “vecchi partiti” della Prima repubblica vi sono ancora ben presenti con una fitta rete di cricche, e gli ex PCI sono assai ben rappresentati.[12]   
Da questo punto di vista era assai più onesto Giorgio Galli, che notava come la dirigenza del PCI, anche locale, fosse arrivata ad appartenere «alla classe dirigente e non a quella subalterna. Ed è da questa sua posizione, con gli interessi che ne derivano, che detta l’impiego di mezzi e del potenziale politico che controlla».[13] Inoltre, Berlinguer non si rendeva forse conto che anche il suo partito stava diventando sempre più simile agli altri, preso dall’ansia del potere a tutti costi e da un attaccamento identitario sempre più simbolico, con sempre meno rapporti «con le esigenze e i bisogni umani emergenti», nonché con «scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi». Anche i «sentimenti» e la «passione civile», del resto, erano in calo nel PCI, cosa di cui ben si ricordano coloro che hanno frequentato le sue sezioni negli anni ’80.[14]   

Operai e riformismo
Infine, quando racconta di alcune dure sconfitte del PCI negli ultimi anni della segreteria Berlinguer, come la lotta alla FIAT e il referendum sulla scala mobile, Sorgi le associa alla «perdita di centralità della classe operaia», e alla «necessità di accelerare il riformismo». Qui, diversi commenti si impongono.
Se per classe operaia si intendono gli operai di fabbrica, è normale che in un Paese a capitalismo avanzato questi siano in numero via via minore, a causa dell’automazione e dello sviluppo del terziario. Piuttosto, direi che è stata la classe lavoratrice in quanto tale a perdere centralità, e per più motivi. Sia perché i partiti che tradizionalmente la rappresentavano hanno deciso di guardare altrove, sia perché fra i lavoratori stessi sono venuti via via crescendo l’individualismo e l’indifferenza, la convinzione che bisogna salvarsi da soli, ecc. Questo, però, non sembra un buon motivo per abbandonarla: è bene ricordare che, se la classe lavoratrice è stata così centrale nell’Ottocento e nel Novecento non è stato certo per caso, né per volere divino. Essa è diventata centrale nel corso di lunghe e faticosissime lotte, portate avanti testardamente da persone che i benpensanti dell’epoca ritenevano dei pazzi o dei delinquenti, anche essendo in minoranza. Insomma, senza sforzi e senza lotte i lavoratori non ottengono mai nulla: questa è una regola valida nel passato come nel presente.
Il punto del riformismo è altrettanto problematico. Storicamente, nel movimento dei lavoratori il riformismo si è affermato in contrapposizione alle correnti rivoluzionarie. Cioè, mentre i rivoluzionari volevano cambiamenti più radicali, i riformisti ne davano di più modesti, anche per scongiurare la temute rivoluzioni. È stato proprio così che nel corso nel Novecento si è potuto affermare un forte stato sociale. Logicamente, con la crisi delle correnti più radicali, sono entrare in crisi anche quelle più moderate: se la classe lavoratrice è debole e atomizzata, senza una seria rappresentanza politica e sindacale, perché le classi proprietarie dovrebbero farle delle “concessioni”? E infatti, da decenni a questa parte non solo non ci sono più “concessioni”, ma tutte le conquiste passate vengono progressivamente e radicalmente smantellate, spesso ad opera della sinistra parlamentare stessa. In realtà, il riformismo è stato “accelerato” più che altro a parole; nei fatti, la classe lavoratrice è stata bastonata sempre, e sempre peggio.
Con preciso riferimento alla scala mobile, se da un lato Sorgi ritiene che la sua abolizione fosse «indispensabile», dall’altro sottolinea che opporvisi fu l’ennesima contraddizione per un partito che voleva convincere i lavoratori a fare sacrifici e a essere austeri.[15]

 Conclusione
In conclusione, il libro di Sorgi è estremamene appassionante e meritorio. Sebbene contenga diversi spunti critici che aiutano a vedere Berlinguer in una luce più obiettiva, lascia comunque aperti molti perché: non è del tutto chiaro, soprattutto, il motivo per cui questa figura sia tanto edulcorata. Tentando una spiegazione, si può ricordare la famosa frase «beato chi non ha bisogno di eroi». Probabilmente, una parte d’Italia ha avuto bisogno di creare questa figura eroica per sopperire a un’innegabile crisi, dalla quale ancora non riesce a uscire. D’altro canto, a molti voltagabbana passati dalla parte della borghesia fa comodo agitare questo o quel santino, perché ciò contribuisce a oscurare e ignorare sistematicamente i problemi reali. Sebbene questa considerazione possa sembrare pessimistica, in realtà vuol essere l’esatto opposto. Forse, una visione meno agiografica di questa e altre figure del passato recente potranno aiutare a guardare sia il passato, sia il presente in modo più razionale e distaccato, e a elaborare una strategia di cambiamento che non può essere né rapida, né semplice, né indolore. E, per questo, è necessario un grande ottimismo, sia della ragione che della volontà.


[1] Qui si parla solo della prima parte del libro, che è il racconto in prima persona dell’autore. Non si parla della seconda, che contiene interviste a personaggi fin troppo ascoltati come Occhetto, D’Alema, Veltroni, ecc.
[2] Questa e tutte le citazioni successive sono senza numero di pagina, perché prese dalla versione elettronica del libro.
[3] Sulle censure ai suddetti autori, v. https://www.carmillaonline.com/2022/11/11/persichetti-non-si-puo-recensire/
[4] Marco Clementi, Paolo Persichetti ed Elisa Santalena, Brigate rosse. Dalle fabbriche alla campagna di primavera. Vol. I (Roma: Derive-Approdi, 2017): 436.
[5] Paolo Persichetti, La polizia della Storia (Roma: Derive-Approdi, 2002): 59-66.
[6] Ibid., 59.
[7] Marco Clementi, Storia delle Brigate rosse (Roma: Odradek, 2007).
[8] Gianni Cervetti, L’oro di Mosca (Milano: Baldini e Castoldi, 1999).
[9] Massimo Salvadori, La sinistra nella storia italiana (Roma-Bari: Laterza, 2001).
[10] Per le interessanti riflessioni di uno storico libertario sulla lotta armata, vedasi: Marco Gabbas, “Gli anni ’70 in Italia secondo Claudio Venza, un antiautoritario in una istituzione autoritaria,” Tigor: rivista di scienze della comunicazione e di argomentazione giuridica XVI/1 (2024): 55-61.
[11] Su queste contraddizioni, vedasi anche: Soccorso rosso, Brigate rosse. Che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto (Milano: Feltrinelli, 1976).
[12] Gabbas, “Claudio Venza”.
[13] Giorgio Galli citato in: Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Vol. 2 (Milano: Edizioni Oriente, 1970): 405.
[14] Le citazioni sono tutte di Berlinguer, che si riferiva però agli altri partiti. V. Marco Gabbas, “Il Pci fra storia orale e riflessioni anti-agiografiche”, https://www.carmillaonline.com/2023/02/26/il-pci-tra-storia-orale-e-riflessioni-anti-agiografiche/
[15] Curiosamente, di recente il segretario della CGIL Landini è tornato a parlare di scala mobile, anche se non molto convintamente, e senza un programma di lotte necessario per raggiungere un obiettivo così ambizioso.
Marco Gabbas: Marco Gabbas è nato a Nuoro nel 1988 e vive a Budapest, dove fa l’insegnante. Si è occupato per diversi anni di storia politica dell’età contemporanea, pubblicando svariati saggi in materia su riviste accademiche internazionali. Ha pubblicato nel 2023 "Inferno a Rosarno" (romanzo breve sulle rivolte dei braccianti africani) e nel 2024 un libro di storia orale sulla balbuzie, entrambi col l’editore Calibano.
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