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Il ritorno

L’esistenza di due fratelli adolescenti, che vivono con la madre in un desolato villaggio della Russia, viene sconvolta dal ritorno del padre, assente da casa per dodici anni. Di lui i due hanno solo vaghi ricordi, tanto che sospettano sia un impostore; ciononostante, il giorno dopo il suo arrivo, il padre decide di portare i figli in gita a pescare. I ruvidi modi di fare dell’uomo portano il figlio maggiore a riconoscerne l’autorità e sottostarvi di buon grado, mentre il piccolo si ribella anche se è costretto all’ubbidienza. Quando il trio giunge in un’isola sperduta in mezzo a un enorme lago, i figli finalmente possono provare a pescare, mentre il padre recupera sottoterra uno scrigno sigillato che nasconde, senza aprirlo, nella barca. Ma la tragedia è in agguato: per un banale ritardo, il figlio maggiore viene severamente punito dal padre, che arriva persino a minacciarlo con un’ascia; il piccolo allora, sconvolto, scappa nella foresta, salvando il fratello dalla violenza paterna, e si nasconde in cima ad una torre di ferro.

La visione del film assicura una doppio binario di lettura. Da un lato, un road-movie a tinte fosche di studiata lentezza, dove è il mistero a farla da padrone e l’impossibile rapporto padre-figli si tramuta quasi in una lotta per la sopravvivenza e per la propria affermazione. Dall’altro, è evidente nelle intenzioni del regista, esordiente sul grande schermo dopo una brillante carriera televisiva, una trasfigurazione mitologica della vicenda: nonostante le semplificazioni retoriche, imputabili ad una ingenuità da opera prima (la raffigurazione del padre identica a quella del “Cristo morto” del Mantegna, la cena in cui il padre spezza il pane e versa il vino, la stessa suddivisione in giornate che rimanda necessariamente alla Settimana Santa), l’afflato mistico-religioso della raffigurazione è un potente paradigma delle vicende umane e familiari. Zvyagintsev inserisce vicende così turgide in un paesaggio di selvaggia bellezza, fotografato con i colori lividi e spettrali delle albe del Nord, e soprattutto soppesa alla perfezione i toni della tragedia, senza indulgere in magniloquenze eschilee ma contemporaneamente senza mai dimenticare la grandiosità dei temi trattati.

Molte domande, poste nel film, rimangono senza risposta: chi è davvero il padre dei bambini? e da dove arriva? e quali sono le sue reali intenzioni? e cosa si nasconde nello scrigno? Le acque del gigantesco lago che circonda l’isola si portano dentro il segreto, mettendo una pietra tombale sulla nostra razionale ansia di conoscenza. Qualcosa è ritornato da un mondo lontano ed oscuro, ed è scomparso per sempre nell’arco di pochi giorni: quel momento, vero e proprio giro di boa esistenziale, impone di lasciarsi alle spalle i giochi dell’infanzia e di scegliersi il proprio posto nel mondo. Raramente, la rappresentazione di questa ancestrale frattura è stata di tale spettrale e raggelante bellezza; e, giustamente, è stata premiata con un Leone d’Oro meritatissimo.

Davide Verazzani: E' nato a Milano nel 1965. Ama il cinema da quando ebbe la fortuna di vedere sul grande schermo "Guerre stellari" e "Lo squalo". Ha collaborato come recensore con Ciemme, L'Informatore, Lanetro.it, mymovies.it, 16noni.it. E' fondatore del sito www.nouvellevague.eu. Scrive sceneggiature di cortometraggi e lungometraggi.
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