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William McIlvanney – “The Kiln” (La fornace), ovvero l’infida trappola democratica della cultura resa accessibile ai ceti meno abbienti

     Nella Gran Bretagna del 1944, la legge sulla liberalizzazione degli accessi agli studi superiori e universitari fu dettata più dall’urgenza, a causa della guerra, di laureare professionisti e intellettuali anche tra i giovani delle classi meno abbienti che da un reale progetto di apertura democratica (sebbene questo fu il modo in cui venne presentata dal governo). Infatti, già negli anni Cinquanta, gli studenti privi di mezzi economici che beneficiarono di borse di studio – i cosiddetti scholarship boys – si resero conto che la loro posizione sociale non era affatto migliorata. I loro sentimenti – speranza di riuscire ad emanciparsi, delusione, insicurezza interiore, rancore contro i privilegi della rigida società britannica – sono stati efficacemente testimoniati in commedie (vedi Look Back in Anger[1] di John Osborne), in romanzi (Pasmore[2] di David Storey e Room at the Top[3] di John Braine – ma non dimentichiamo illustri e profetici testi come Caleb Williams[4] di William Godwin, David Copperfield[5] di Charles Dickens, Jude the Obscure[6] di Thomas Hardy) e in controversi saggi come The Uses of Literacy[7] di Richard Hoggart e The Long Revolution[8] di Raymond Williams.
     Anche William McIlvanney, autore che si inserisce con grande coerenza e continuità nella tradizione di una letteratura scozzese attenta ai temi sociali, ha offerto, nel suo romanzo The Kiln[9] (un racconto autobiografico curiosamente in terza persona), un’intensa descrizione degli stati d’animo di Tom Docherty, figlio di operai che, seguendo l’ambizione di diventare insegnante, scrittore e intellettuale, fa dei propri tormenti privati e professionali un atto di denuncia contro una delle più sottili ambiguità della civiltà britannica (e occidentale in generale): l’istruzione concessa anche ai ceti poveri non è altro che un’astuta trappola in cui questi perdono la loro identità e, di conseguenza, anche la loro carica critica e polemica contro un sistema che li schiaccia.
     Questo tema, in effetti, è presente in quasi tutta la narrativa di McIlvanney. I dubbi sugli studi universitari di Tom Docherty sono gli stessi che hanno altri suoi personaggi: Charlie Grant in Remedy Is None[10], Eddie Cameron in A Gift For Nessus[11], Tony Veitch in The Papers of Tony Veitch[12] e soprattutto Scott Laidlaw, il fratello suicida dell’ispettore Laidlaw, in Strange Loyalties[13]. Tutti sono in conflitto con una cultura che non arricchisce e forza ad accettare le ipocrisie di una società che si finge liberale. Il destino comune di questi eroi è di non trovare altri individui disposti a condividere la loro sensibilità esasperata e di essere quindi destinati a una solitudine che, in alcuni casi, li schianta senza pietà.

     La cultura e la conoscenza, se non sono sostenute da un codice etico, non sono un bene prezioso – riflette amaramente McIlvanney. Tom Docherty si accorge con adolescenziale stupore, nonostante sia arrivato alla maturità, che la cultura non ha affatto il potere innato di convertire gli individui spingendoli a combattere mediocrità morale e corruzione e gli riesce difficile accettare che le nobili idee maturate all’università non si siano tradotte in altrettanto nobili comportamenti civili:

Perché a volte si sentiva tradito? Quando era giovane all’università, per esempio sembrava che fossero così in tanti, uniti contro i nemici identificati: materialismo, egoismo, carrierismo e negazione della comunità di essere umana. Ma diminuirono. Poi, all’improvviso, fu buio e freddo ed eri stanco e sapevi vedere quei nemici non più come astrazioni, ma reali e immediati come skinhead che si avvicinavano e, camminando verso di loro, sentivi di essere solo. Ti guardavi intorno e pensavi, ‘Eravamo una folla, un tempo’. In quali case illuminate si erano rifugiati, in quali comodità private? E sembrò non esserci nessun posto dove andare, se non avanti. 

     Nel suo percorso di formazione come romanziere e intellettuale, McIlvanney ha più volte dichiarato di aver saputo riconoscere la propria vocazione alla scrittura e di avere avuto la lucidità di considerarla una forza interiore legata a ciò che lui era e al luogo in cui era nato. Non ha mai concepito la scrittura come uno sterile esibizionismo o un autocompiaciuto gioco di sdoppiamenti di personalità e mistificazioni in cui perdersi. Anzi, l’ha sempre nutrita con l’impegno e il rispetto (che si potrebbero definire wordsworthiani) verso la sua comunità di appartenenza sforzandosi di esprimere un messaggio e dare un significato morale alla sua vocazione di scrittore anche se ciò, paradossalmente, lo ha a volte allontanato dalla sua gente (l’amaro destino di chi, ricevuto un talento, se ne scusa quasi fosse addirittura una colpa di cui vergognarsi).

     McIlvanney é stato parte di un fenomeno sociale significativo nella Gran Bretagna degli anni Cinquanta-Sessanta che Raymond Williams, nel suo profetico saggio The Long Revolution del 1961, aveva descritto come la ‘terza rivoluzione’, ossia la rivoluzione culturale. (Secondo lo studioso gallese la prima era stata quella industriale e la seconda quella che aveva prodotto sia il suffragio universale, sia la liberazione di numerosi Paesi dall’oppressione colonialista). Questa terza rivoluzione ha avuto il merito di favorire l’accesso di un più ampio numero di individui ai processi di apprendimento e, di conseguenza, alla produzione di forme avanzate e raffinate di espressione e comunicazione che prima erano riservate solo ad alcuni gruppi sociali privilegiati. Questo ha ovviamente modificato anche la percezione dell’arte e della cultura in virtù del numero crescente di scrittori, artisti e intellettuali provenienti da classi non agiate ma, inevitabilmente, ha anche determinato un complesso rapporto disorganico tra produttori e fruitori della creazione artistica, che si è manifestato attraverso meccanismi contraddittori di accettazione o rifiuto a seconda del clima sociale, politico ed economico del momento in cui una determinata opera veniva proposta al pubblico.

     Quale poteva essere un approccio che mettesse ordine in quel complesso rapporto disorganico tra individui appartenenti a classi sociali tanto diverse tra di loro? Affidandoci alle argomentazioni di Raymond Williams (che McIlvanney sembra aver fatto sue, in forma narrativa, proprio in The Kiln), potremmo sostenere che il fattore che aveva reso vitali l’arte e la cultura in Gran Bretagna nell’immediato dopoguerra era stata la capacitá di alcuni artisti, intellettuali e scrittori di stabilire un canale di intensa comunicazione con il pubblico in modo tale che la loro esperienza personale – espressa in forma artistica e, pertanto, unica ed irripetibile – si trasformasse in un’esperienza da condividere. In ultima analisi, il valore primario di un’opera non risiedeva nelle sue qualità estetiche (peraltro assolutamente imprescindibili) ma nella sua abilità di favorire un dialogo costruttivo fra autore e pubblico.
     È ovvio che il realismo sia la più efficace forma narrativa deputata a realizzare questa positiva comunicazione tra autore e lettore. Ma questo risultato si può raggiungere al meglio solo se lo scrittore stabilisce una sorta di simbiosi con una comunità vera fatta di persone vere che sono legate tra di loro da una serie di varie e diversificate forme di rapporti interdipendenti e le cui storie individuali costituiscono, nella loro unicità, preziosi tasselli che, in modo inconsapevole ma armonico, contribuiscono a cementare una storia collettiva che lo scrittore, appunto, avrà il compito di assemblare.

     McIlvanney è riuscito, con risultati eccellenti, a realizzare questa simbiosi parlando della sua comunità con sincera, commossa, profonda e solidale partecipazione perché si è sentito investito del ruolo di testimone e portavoce. In The Kiln, inoltre, egli ha mostrato che i meccanismi di riconoscimento e di condivisione di idee e stati d’animo non si realizzano più in base al senso di appartenenza alla propria classe e ai suoi valori consolidati, ma in base a meccanismi di aggregazione in costante mutamento. La cultura, in sostanza, non è più un patrimonio comune, ma un fattore discriminante che più spesso divide piuttosto che unire. Chi ambisce a impossessarsi della cultura borghese, per esempio, come accade a Tom Docherty, dovrebbe tenere conto che lo studio, per la classe operaia, non innesca un processo di crescita ma una subdola forma di destabilizzazione, in quanto porta l’individuo a fare scelte e ad assumere comportamenti non familiari. Tom ne diventa consapevole quando incontra per strada un ex compagno di scuola:

Sammy appartiene al luogo da cui proviene. La vita potenziale di Sammy è una mappa che Tam sente di stare abbandonando e invidia di Sammy il suo senso di direzione. Sammy è un apprendista falegname. Tam dovrebbe andare all’università alla fine dell’estate. … Sammy legge le pagine sportive. Tam sta lottando con le Riviste di Kierkegaard e ha scritto un poema sulla natura della vita. Sammy si sposerà presto e avrà bambini e ogni tanto farà a botte e si ubriacherà  e farà il proprio lavoro. Che cosa diavolo farà Tam? La forma familiare della vita di Sammy sembra a Tam come la collina di un Eden perduto, e lui vive invece nella valle, chiedendosi se sia già troppo tardi per tornare indietro.

     Tom e Sammy, pur non volendolo, si trovano ormai in situazioni non più compatibili: la scuola ha compiuto su di loro la prima invisibile, e in quel momento ancora indolore, forma di discriminazione. Provengono dallo stesso mondo, hanno le stesse radici, ma presto acquisiranno percezioni differenti della società.

     La cultura non colloca Tom in una posizione di prestigio rispetto ai suoi familiari e amici (rimasti saldamente legati ai loro valori). Mentre suo padre può tentare di diventare un lavoratore autonomo senza perdere la sua identità (con il cognato comunista che lo critica, si giustifica dicendo: «Capitalismo negativo, Josey. Io sto cercando di portare la ricchezza nelle mani degli operai. Poi la possiamo distribuire in modo più giusto»), Tom sente con certezza di non appartenere alla classe media a cui è approdato in virtù dei suoi studi universitari:

La loro ricchezza era del tutto concreta. Era fatta di macchine, case e oggetti e una buona istruzione per i figli. Si assicuravano che niente in loro – nessuna esperienza – soppiantasse quelle priorità.
Tom si sentiva parte di una tradizione diversa. Aveva assorbito altri valori nello schema familiare da cui proveniva, in quelle ripetute discussioni che la sua famiglia aveva nelle prime ore della mattina. Discutevano di ogni cosa, indipendentemente da quali fossero i fatti. Ma non ricordava che avessero mai discusso dell’importanza di possedere. La loro ricerca riguardava se stessi. … Soldi, carriera e sicurezza erano bagagli su cui non potevi contare in quel terreno. Aveva sempre vagamente creduto che avrebbe rinunciato a ogni centesimo che aveva piuttosto di accontentarsi di essere meno della persona che poteva essere.

     Solo in alcuni casi fortunati la cultura non discrimina e permette il cementarsi di nuove amicizie sulla base di affinità intellettuali e umane e di idee condivise. Infatti, tra tutti i compagni di scuola e i membri della sua comunità, sarà Jack Laidlaw (il futuro ispettore) l’unica persona con cui Tom si troverà in sintonia.
     La sintonia che, invece, lui riesce a mantenere con i suoi familiari, difendendola con tutte le sue forze, non è fondata sul piano intellettuale ma sugli affetti. E infatti suo padre, pur essendogli solidale, non sembra capire le sue ambizioni. E forse non le comprende nemmeno sua madre che, però, vuole fermamente dargli la possibilità di scegliere. Il ricordo del primo giorno di lezione all’università è commovente per l’atmosfera di solidarietà che si percepisce:

«Non credo di essere all’altezza, mamma» inizia lui.
Lei ride di nuovo. Gli dice quello che gli diceva tutte le mattine prima di un esame a scuola.
«Fai il meglio che puoi, figliolo. Nessuno ti chiede di più.»
Lui sospira platealmente.
«Che cosa pensi, Tom? Che se fallisci ti diserediamo? Ti sei guadagnato il diritto di andarci. Vacci come te stesso. Qualsiasi cosa otterrai, per noi andrà bene.»
Gli appoggia una mano sulla spalla e sembra un encomio: si alzi, Sir Thomas.
«Coraggio» dice sua madre. «Vai e usa la testa.»

«Hai paura?» gli chiede suo padre.
La sua paura è così evidente?
«Beh, non sono proprio tranquillo.»
«Tutti hanno paura. Almeno stai affrontando le tue. Tuo nonno voleva che continuassi la scuola. Io non volevo. Mi dicevo che era perché avevo cose più importanti da fare. Ma credo che avevo solo paura di conoscere i miei limiti. E li ho dovuti conoscere comunque.»

«Figliolo» dice. «Abbiamo tutti paura del mondo. Siamo a letto la notte e abbiamo paura delle cose che possono succedere. L’uomo più grande del mondo, se ha cervello, vivrà nella paura. Deve solo imparare a tenerla sotto controllo. Tu dovrai fare lo stesso. Qualche volta, figliolo, dovrai solo urlare Geronimo e saltare.»
Si scambiano un sorriso.
«Ciao, papà.»
«Buona fortuna.»

«Ehi, Einstein.»
Gli ci vuole un momento per localizzare la voce. La testa di Michael è vagamente visibile affacciata alla finestra della camera, al piano di sopra. I capelli sono scompigliati.
«Vai e falli fuori tutti.»

     Il giorno tanto atteso – e temuto – segna la fine dei sogni adolescenziali. Ora è giunto il momento di realizzarli ma è fortissimo il timore di perpetrare una sorta di tradimento nei confronti dei propri cari. Anche se non lo vuole – anche se loro lo sostengono e gli dichiarano che non gli faranno mancare il loro affetto nemmeno nella remota ipotesi di un fallimento – Tom capisce che una barriera di vetro si frapporrà tra lui e la sua famiglia, attraverso la quale si potranno ancora scambiare sguardi solidali senza tuttavia mai più incontrarsi veramente di nuovo. Anche suo padre, sua madre, suo fratello e sua sorella sentono che il distacco sarà definitivo, ma sono confortati dalla certezza che il legame con l’amato familiare “diverso” rimarrà forte e mai gli rimprovereranno la sua scelta.
     Ma non c’è solo la ferita provocata dal distacco dalle proprie radici. McIlvanney prende atto che purtroppo la comunità che lui si è proposto di difendere nei suoi scritti, negli oscuri anni Ottanta, ha cessato di esistere: lentamente ma inesorabilmente, è stata emarginata da una nuova società aggressiva e insensibile che mira a cancellare tutte le identità più diverse per inglobarle in un grigiore indistinto. Quale tipo di cultura – si chiedono McIlvanney e il suo alter ego letterario, Tom Docherty – sarà dunque capace, pur modificandosi, di conservare i valori più rappresentativi della comunità che li ha creati e impedire che vengano spazzati via dal potere economico che, per garantirsi il consenso, mira a forgiare individui senza identità disposti a subire senza avere la forza di reagire?

     In The Long Revolution Raymond Williams aveva ironicamente dichiarato che quando l’uomo della strada praticava la lettura con una certa regolarità, mandava un segnale pericoloso perché, allargandosi la cerchia dei lettori, il livello di qualità della letteratura degenerava e vinceva la cosiddetta blotterature (potremmo tradurla con l’espressione “letteratura-spazzatura”). Per contrastare questo pregiudizio, Williams incoraggiava innesti e contaminazioni che conciliassero le forme più diverse di arte e cultura rendendole compatibili e interscambiabili.
     McIlvanney ha fatto esattamente questo: in quasi tutti i suoi romanzi ha mischiato leggende metropolitane prodotte dalla tradizione orale della classe operaia, miti del cinema e programmi radiofonici e televisivi ai classici della letteratura e del teatro, musica classica e jazz a quella rock, country e folk. Ha dato, in sostanza, dignità alla blotterature dichiarando fedeltà e gratitudine alle sue letture giovanili tra cui, oltre ai grandi autori della letteratura mondiale, spiccavano i romanzi basati sul personaggio del Dr. Kildare, i romanzi western del tedesco Karl May, la letteratura erotico-poliziesca con l’investigatore Hank Janson. Il cinema, in particolare, ha avuto uno spazio importantissimo nella sua narrativa per la facilità con cui i suoi personaggi, immedesimandosi in attori come John Garfield, Marlon Brando e Humphrey Bogart, si consolano simulando una vita che non avrebbero mai potuto realizzare. Il suo obiettivo, dunque, è stato di trovare un tono alto che nobilitasse il patrimonio culturale delle classi più povere. La ricchezza della sua proposta sta proprio in questa miscela di cultura popolare e cultura borghese in cui non vengono costruite ipocrite gerarchie di valore, ma viene invece elaborato un patrimonio di conoscenze che, in varia misura, consentono all’individuo di definire il proprio ambiente sociale.
     Per diffondersi, tuttavia, questo patrimonio ha bisogno di una lingua radicata nella comunità. Il tema della lingua scozzese in continuo conflitto con l’inglese, la lingua dell’invasore, è centrale nei romanzi di McIlvanney. Ed è significativo che il nome del protagonista sia scritto nell’ortografia scozzese, Tam, nei flash-back precedenti alla sua esperienza universitaria mentre viene chiamato Tom, nella normale ortografia inglese, dopo che l’emancipazione culturale lo ha allontanato dalle sue origini. I suoi commenti sull’inarrestabile emarginazione della lingua scozzese sono ironici e amari allo stesso tempo. Eccone un esempio:

Perché tutte le cose in scozzese sono designate dal suono meno romantico che la bocca possa produrre? Il vocabolario scozzese è come una quinta colonna che opera all’interno della sonora pomposità dell’inglese, pieno di consonanti esplosive rinnegate e gutturali che amano smontare le presunzioni. È l’inglese in mutande.

     Un richiamo speciale merita il capitolo dedicato all’amatissimo zio Josey – al quale viene espressa profonda gratitudine per avere nutrito il pensiero politico a cui McIlvanney si è sempre appoggiato nel suo esercizio della memoria. Il brano citato qui di seguito venne pubblicato dallo scrittore di Kilmarnock, come omaggio a questa fondamentale figura della sua famiglia, anche sul Glasgow Herald. È una dichiarazione di affetto ma è anche una dichiarazione politica in cui non compare la minima ambiguità:

Mio zio Josey era un comunista profondamente imp
gnato. Io non credevo nella sua filosofia politica, allora, né in seguito né ora. Sono felice di assistere all’attuale liberalizzazione dell’Europa dell’Est. Ma spero di mantenere sufficiente precisione intellettuale e onestà emotiva da non lasciarmi
intimidire dal demenziale blaterare degli attuali politici britannici e americani ed essere portato a confondere il blocco comunista orientale con la forma umana e pragmatica che la stessa ideologia ha trovato per se stessa in Scozia.
Dai tempi di John MacLean, il Comunismo scozzese è rimasto un animale sui generis, non un orso russo ma piuttosto un animale dal peso sociale che aiutava le vite ferite con il poco che poteva, dato il suo stato sempre più debole. È rimasto quasi completamente libero dalla rabbia teorica a cui la sua controparte inglese ha talvolta ceduto.
Oltre a mio zio, ho incontrato molti comunisti scozzesi. A volte erano terribilmente dogmatici. Ma lo sono anche molti cattolici e presbiteriani e appartenenti ad altre fedi. Più spesso sono generosi di spirito e profondi nella loro preoccupazione per gli altri. Non trovandomi d’accordo con le loro teorie, sono stato ripetutamente nutrito dalla loro pratica e fortificato nella mia fiducia di una visione del futuro più abitabile. Sono da tempo una parte cruciale in positivo della nostra consapevolezza di noi stessi.
Ma questi sono tempi da meretrici, in cui uno slogan passa per pensiero e la scacciacani intellettuale è l’arma preferita della precisione politica. Si può dire, in sintonia con la tendenza del momento, che se una forma sparisce, tutte dovrebbero sparire. Si può dire, se si vuole, che non c’era nessun bambino nel Comunismo scozzese, solo la solita vecchia tinozza d’acqua.
Lo si può dire. Io non lo dirò. Lo devo a queste persone. Pago il mio debito di gratitudine.

     E illuminante è anche la denuncia dei disastri provocati da politici britannici privi del più elementare rispetto delle esigenze fondamentali della gente comune:

Il mondo intero era un bel somaro. Prendi la Gran Bretagna. Negli ultimi quindici anni, o giù di lì, aveva fatto passi da gigante verso il diciannovesimo secolo. Non riusciva a credere quanto in fretta una società in gran parte decorosa fosse stata spinta a depredare se stessa. I timori che aveva provato quel giorno al Bushfield si erano solidificati in desolata realtà. Una donna, con la prospettiva di una formica soldato, era riuscita a sputtanare il Regno Unito. De-umanizzazione per statuto.     Non esiste una cosa come la società. Un’idiozia autogratificante.

     Questo è un esempio della corrosiva ironia con cui McIlvanney condanna senza attenuanti i “passi indietro” compiuti dalla Gran Bretagna sotto la guida della Thatcher, la rappresentante del “nuovo” della politica britannica, responsabile di avere riportato il Paese ad una dimensione – potremmo dire – medioevale con la sua politica scellerata di smantellamento delle istituzioni, della sanità, dell’istruzione, del mondo del lavoro, affidandosi all’integralismo del “libero mercato”, il grande inganno basato sulla menzogna che la libertà (di pochi) porti benessere a tutti.

*   *   *

     Negli ultimi dieci anni, nonostante abbia continuato a scrivere, McIlvanney non ha più pubblicato romanzi. Quando si avverte che il compito di essere la voce della propria gente non ha più ragione di continuare, allora è meglio scegliere il silenzio – sempre più efficace di tante parole inutili. Solo recentemente è uscito (nell’estate del 2006) un suo nuovo romanzo, Weekend,[14] che racconta quello che accade tra i vari partecipanti ad un convegno letterario.
     Perchè questo lungo silenzio? Forse perché la classe operaia di cui egli parlava in Docherty[15], The Big Man[16] e Walking Wounded[17] non esiste più a causa dei falsi miti dell’integralismo liberista thatcheriano degli anni Ottanta e, più recentemente, dei governi Blair. La storia sociale inglese, del resto, è piena di violenze mascherate dietro a una facciata di progresso e perpetrate ai danni delle classi più deboli. Pensiamo agli spostamenti forzati di mano d’opera a basso costo dalla campagna alla città all’inizio della rivoluzione industriale, alla scomparsa di intere comunità di pescatori della Scozia del primo Novecento, alla chiusura delle miniere nel Galles e nell’Inghilterra del nord per volontà delle lobby dell’energia nucleare negli anni Ottanta. La Brexit, se vogliamo, ha seguito quella stessa matrice mistificatrice: fingendo di curare gli interessi dei lavoratori britannici, a cui è stato fatto letteralmente il classico lavaggio del cervello convincendoli di essere vittime delle leggi sovranazionali dell’Unione Europea e non dello scriteriato liberismo anglosassone, il governo di Londra ha di fatto restituito totale autonomia alle lobby industriali e finanziarie che mal sopportano le regole comunitarie e preferiscono intrattenere rapporti di affari con potenze economiche come India, Cina e Paesi arabi.

     Il suo silenzio, a mio avviso, è stato dettato – da una parte – dalla sua volontà di non scrivere più di un mondo che aveva ormai cessato di esistere e il cui ricordo gli avrebbe altrimenti provocato troppa sofferenza e – dall’altra – dal suo bisogno di ricostruire un proprio senso di appartenenza a un nuovo ambiente sociale in cui riconoscersi e con il quale condividere le esperienze per poi poterne scrivere con rinnovata partecipazione.
     Il suo ritorno al pubblico con Weekend deve essere interpretato in questa luce, ma è legittimo augurarsi che stia pensando di regalarci anche una saga sulla Scozia degli anni Settanta-Ottanta come aveva fatto Lewis Grassic Gibbon con A Scots Quair[18], un grandioso affresco sulla Scozia dei primi trent’anni del Novecento.

     In questo ultimo decennio McIlvanney ha osservato la società scozzese, britannica e internazionale con acutissimi editoriali sul Glasgow Herald e sullo Scotsman. In fondo, dopo avere offerto una testimonianza del suo mondo e avere lanciato un monito perché non venissero dimenticati i suoi valori nel passaggio dalla società industriale a quella altamente tecnologicizzata della digitalizzazione, aveva accantonato il suo impegno letterario perché aveva avvertito l’esigenza di usare un diverso approccio critico – più diretto – alla società britannica che ha fondato il suo attuale assetto sull’annientamento dello Stato – una sorta di gattopardismo in versione albionica la cui idea di “modernizzazione” mira a indebolire le forme di aggregazione sociale e politica che di volta in volta gli individui avevano tentato di stabilire per arginare l’arroganza del potere economico.
     Tutto ciò era chiarissimo a McIlvanney fin dall’inizio dell’era thatcheriana. In una sua poesia, “Skibbereen”, scritta negli anni Ottanta, aveva rivolto un commosso omaggio alle vittime della società civile in tempo di pace, le cui morti sono futili quanto quelle dei soldati in guerra. McIlvanney, lamentando l’abitudine di chi visita luoghi di battaglie sanguinose e ignora luoghi come Skibbereen, dove sono sepolti migliaia di irlandesi vittime della carestia nella prima metà dell’Ottocento, aveva voluto esprimere tutta la sua indignazione per il modo in cui l’uomo ricorre all’esercizio della memoria. Le guerre vengono sublimate attraverso commemorazioni e celebrazioni. Le carestie no. Rendendo omaggio a quei contadini irlandesi, egli aveva voluto esprimere la sua solidarietà a tutti coloro che erano stati costretti a subire la volontà di chi determina il corso dell’economia. Per lo scrittore scozzese la realtà dei fatti era – ed è tuttora – di una disarmante semplicità: le lobby decidono e le braccia devono solo adeguarsi.

     Di fronte a una così semplice constatazione è inevitabile che alcuni suoi eroi siano destinati a soffrire quando, oltre a voler dar voce a chi non ce l’ha, tentano di opporsi al fatto che la società britannica – che attraverso le istituzioni universitarie ha insegnato loro ad esprimersi con proprietà di linguaggio – in realtà abbia messo loro la museruola impedendogli di lanciare accorati j’accuse (e di resistere) e imponendogli di essere organici alla riproduzione del consenso.

Carmine Mezzacappa
University of Kent
Ottobre 2006 – Gennaio 2021


Note:
[1] Ricorda con rabbia, Einaudi 1997
[2] Inedito in Italia
[3] Inedito in Italia
[4] Caleb Williams, Theoria 2018
[5] David Copperfield, Einaudi 2017
[6] Giuda l’oscuro, Rizzoli 2013
[7] Inedito in Italia
[8] La lunga rivoluzione, Officina 1980
[9] La fornace, Tranchida 2008
[10] Inedito in Italia
[11] Il regalo di Nessus, Paginauno 2015
[12] Le carte di Tony Veitch, Tranchida 2000; Il caso Tony Veitch, Feltrinelli 2014
[13] Oscure lealtà, Tranchida 2001; Strane lealtà, Feltrinelli 2016
[14] Weekend, Tranchida 2010
[15] Docherty, Paginauno 2015
[16] The Big Man, Tranchida 2003
[17] Feriti vaganti, Tranchida 2004
[18] Inedito in Italia
Carmine Mezzacappa: Carmine Mezzacappa, torinese di nascita con radici molisane ma con la vocazione a confrontarsi con le culture europee, ha insegnato lingua e letteratura italiana alle università di Reading, Edimburgo e Canterbury in Gran Bretagna, e di Olomouc nella Repubblica Ceca. Ha contribuito alla promozione della cultura italiana all'estero per conto del MAE e delle culture scozzese e irlandese in Italia. Ha organizzato a Edimburgo l'Italian Film Festival a partire dai primi anni Novanta. Ha pubblicato articoli e saggi su cinema e letteratura italiana, scozzese e irlandese. Ha tradotto romanzi e racconti di William Morris, Walter Scott, Lady Gregory, William McIlvanney, George Moore, George Mackay Brown, Raymond Williams, James Robertson. Ha pubblicato due romanzi, “Un antico rancore” e “L'invisibile confine dell'aria”. Ha fondato una piccola rete di librerie solidali, ispirata alle charity bookshop britanniche, che opera in Lunigiana, terra dei mitici librai ambulanti che giravano per l'Europa nell'Ottocento con gerle piene di libelli patriottici. Collabora con riviste e case editrici di qualità che credono ancora nell'idea di una cultura come veicolo di convivenza civile.
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