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Vitaliano Trevisan – Un mondo meraviglioso

Un romanzo sulla solitudine, un lungo monologo teatrale, la voce di un Io in solitaria che, come avrebbe potuto dire David Foster Wallace, è un Io chiuso nella propria testa. È questo a caratterizzare le pagine di Un mondo meraviglioso del compianto Vitaliano Trevisan: un profondo e innominato desiderio di appartenere a questo mondo (desiderio continuamente e irrimediabilmente frustrato), di toccare, infine, chi legge. Toccare per respingere. Toccare per coinvolgere.

Sul respingere, non è detto che la prosa dello scrittore vicentino, qui in chiave dostoevskiana come “memoria dal sottosuolo”, riesca, con il suo impetuoso e incessante srotolare le parole, a creare uno spazio d’interesse per un lettore che (anche visivamente, nell’impaginazione) sbatte contro il muro di un “matto soliloquio”. Un fiume in piena. E chi vorrebbe entrarci? Gorgoglia. Fa vortici. Fa paura. Non tutti vogliono rischiare (o hanno tempo!) di annegare.
Sul coinvolgere: se invece il lettore non teme di stare al gioco di una mente traboccante e si butta a capofitto in un turbinio di “sguardi” (questa narrazione è anche un orchestrare gli sguardi: leggiamo di un uomo che, compulsivamente, osserva l’altro e dall’altro si sente ossessivamente osservato), entrerà nel ritmo e negli spasimi della vita nel Nordest italiano, essendo il turbinio di sguardi e di fatti e di incontri esattamente il modo in cui Trevisan crede che la vita, oggi, scorra. E cioè confusamente, convulsamente, quasi una vita senza respiro incentrata tutta su un’etica del lavoro tipicamente nordestina, rivolta, così pare, all’occupazione di ogni spazio (vitale) vuoto. Perché l’etica produttiva veneta imporrebbe all’individuo di meccanizzare le proprie abitudini di vita, di riempire tutti gli spazi di vuoto in cui potrebbe emergere qualcosa di buono; e invece no, non resta altro che l’asservimento alla piccola impresa e l’inconsapevolezza di sé. E in questo contesto il narratore-Trevisan si fa voce (folle, non quieta) di grillo parlante.

Chi legge in assenso e risonanza con una condizione esistenziale di “critica separatezza” si lascerà  coinvolgere. E troverà idee interessanti: il lancio dei “Fratelli Karamazov” nel Bacchiglione, un gesto che ha un suo particolare senso liberatorio, dato che è compiuto proprio da uno scrittore arrabbiato. Uno scrittore che, tuttavia, subito si pente e ritratta, ripara al gesto.
Chi si affiderà all’impeto fluviale di questa scrittura forse arriverà a un momento d’estasi, ovvero di uscita dalla propria testa, dal proprio Io. Perché fuori c’è, o ci potrebbe essere, un mondo meraviglioso, se solo noi… Ecco che questo romanzo è anche la storia di un Io che va verso una consapevolezza del Noi. Ecco che il tema della solitudine si trasforma in quello del meraviglioso. È solo un barlume di consapevolezza, ma significativo, quasi salvifico. Un breve, brevissimo, danzante respiro.

La trama è tutta qui: uno scrittore va a trovare suo padre in ospedale e, di ritorno a casa, vive un’allucinata avventura. Che poi il sottotitolo di Un mondo meraviglioso sia Uno standard, ha a che fare con la musica, con il jazz e con la volontà dell’autore di prendere un modello compositivo standard, appunto, e rovesciarlo. Il modello di What a wonderful world di Louis Armstromg offre a Trevisan l’occasione di un’amara, indomita ironia su questo mondo, fra tutti quelli possibili.

Angelo d'Andrea: Angelo d’Andrea (1976) è laureato in Scienze della Comunicazione a Roma e Scienze Psicologiche a Verona, dove attualmente vive. Ha pubblicato racconti in raccolte e sul web e il romanzo "E mi piace dirti queste cose" (Calibano, 2019).
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