Pochi, nella letteratura contemporanea del nostro Paese, hanno la capacità di Maria Rosa Cutrufelli di scavare nell’animo dei personaggi, di penetrare negli anfratti più remoti del loro essere, soprattutto quando si tratta di personaggi femminili.
L’isola delle madri, ultimo romanzo della scrittrice siciliana trapiantata a Roma, è ambientato in un tempo indefinito, che potrebbe essere un futuro assai prossimo o addirittura un presente in cui l’umanità è già impantanata da un pezzo. La desertificazione è in fase avanzata, il mare non è più fonte di vita ma un essere moribondo che restituisce all’uomo il male che ha seminato negli ultimi decenni, la terra è impregnata di liquami avvelenati e la natura sta lentamente regolando i conti con l’indesiderato ospite. Un’umanità sgomenta vede diffondersi il più terribile dei morbi, un male che mette a rischio l’esistenza stessa della specie: la “malattia del vuoto”, ossia la sterilità diffusa, l’incapacità di riprodursi.
In questo contesto, per contrastare il diffondersi della disastrosa pandemia, su un’isola indefinita viene impiantato un centro avanzato di ricerche nel campo della biotecnologia. Ed è proprio qui che si incontrano i destini di quattro donne tanto diverse tra loro (la direttrice del centro ricerche, un’infermiera proveniente dall’Est, una ragazza africana in fuga dalle guerre che insanguinano il suo Paese, un’archeologa e docente universitaria) quanto accomunate da quel tema che percorre l’intero romanzo e ne è il fulcro: la maternità, la possibilità o l’impossibilità di procreare, i diversi modi di essere madre o di diventarlo.
Un romanzo, L’isola delle madri, che ha dunque diverse chiavi di lettura, ma la distopia di fondo sembra solo un pretesto – opinione del tutto personale – per mettere maggiormente in risalto la forza vitale delle donne, l’abilità nel creare speranza, oltre che vita, con la loro capacità di unirsi, di progettare e di lottare insieme per un’esistenza più giusta per l’intera umanità.