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Fleur Jaeggy – I beati anni del castigo

C’è qualcosa di implacabile in questo libro, impostato su uno stile così preponderante, una forma tanto soverchiante da porsi essa stessa come narrazione, prima ancora e al di là delle vicende narrate (esilissime, peraltro, rappresentando poco più della descrizione delle giornate passate in un collegio svizzero da parte di una io narrante e dei suoi incontri). Da questo punto di vista I beati anni del castigo è un romanzo a dir poco sontuoso che diventa storia proprio per il modo in cui è scritto. Sotto molti aspetti, una specie di miracolo letterario.
Elemento principale di questo stile tanto vibrante è certamente l’uso ossessivo dell’ossimoro (fin dal titolo, meraviglioso), un accostamento spesso violento di aggettivi e nomi che si scontrano tra loro, a creare una continua e costante tensione narrativa all’interno dell’apparentemente quieta e ripetitiva vita nel collegio. Una riproduzione formale, quindi, prima ancora che sostanziale, dell’idea che in ognuno di noi ci sia, allo stesso tempo, il tutto e il niente, la vita e la morte. E che non esistano, perciò, angoli di quiete.

L’uso dei tempi, poi: in un racconto rivissuto dalla narratrice e quindi ambientato nel passato, di tanto in tanto fanno capolino verbi al presente, apparentemente casuali, in realtà misuratissimi meccanismi per rendere l’idea di un ricordo che è ancora vivo, presente a chi lo rievoca; una quotidianità, quella nel collegio, dalla quale la narratrice non sembra mai essersi davvero staccata, scene che sembrano accadere in quel momento, come fossero ancora davanti agli occhi.
E ancora il gelo, riprodotto, oltre che da una scrittura distaccata e secca, con la rappresentazione di elementi naturali sempre espressivi di una freddezza fisica che è, prima ancora, emotiva. C’è il sole, sì, ma è sempre un sole freddo; il cielo è azzurro, ma la sua limpidezza è glaciale; e la neve, una continua superficie che ricopre il mondo fisico, è specchio di ben altre patine capaci di soffocare ogni slancio emotivo: l’educazione imposta, l’esasperato rituale del galateo, la formalità annichilente delle abitudini.

Anche i temi trattati oscillano continuamente tra i loro opposti. Il desiderio e la sua negazione, ad esempio, con la narratrice che tende a Frederique, la nuova arrivata – oggetto di immediata attrazione e fulcro dell’azione (interiore) sviluppata da Jaeggy – ma negandosi ogni contatto con quest’ultima, creatura perfetta nel suo isolamento, nella sua mancanza di bisogni e di contatti (è questo distacco ciò cui aspira la narratrice?). O, ancora, l’adolescenza, vagheggiata come età in cui tutto fiorisce ma, allo stesso tempo, muore (l’innocenza, il futuro): non a caso l’incipit, che si apre con la tragica fine di Robert Walser, è saturo di parole quali “manicomio”, “morire”, “sepolcro”, mentre il bianco della neve ricopre ogni cosa. Una morte non tanto (non solo) fisica, piuttosto una consunzione di sentimenti, di emozioni, una raggelante caduta nell’inesprimibile baratro di una mancata speranza, soffocata dal formalismo imposto dal collegio.
Emblematici, come già accennato, anche i tempi del racconto: il passato in cui tutto accade, contrapposto al futuro che sembra non avverarsi mai. Tanto che nessuno o pochissimi accenni verranno concessi all’esistenza fuori dal collegio della narratrice o delle sue compagne, esaltando, in qualche modo, proprio il presente, quel momento di vita trascorso al collegio e alla sua “vetusta infanzia”, da congelare in quanto unico istante che abbia senso ricordare.

Tutto è contrasto, dunque, in questo libro, tensione, perché solo dal contrasto sembrano nascere la vita, la narrazione. Al punto che la vita, la pulsione, l’amore stesso che queste creature imprigionate nella beata dannazione della loro giovinezza cercano come un annegato ricerca l’aria, sembrano nascondersi unicamente tra le pieghe delle continue penombre, come un segreto inconfessabile. Ecco allora armadi dove chiudere vestiti, scatole dove sigillare lettere, stanze dentro le quali imprigionarsi alle abitudini, futuri già segnati, loculi della memoria in cui richiudere le persone e i ricordi. E una contraddizione, l’ultima, fondante di tutto l’intento narrativo di Fleur Jaeggy: tutto appare glaciale, asettico, ma sotto la superficie cova il fuoco di una volontà che continua a cercare, indomabile a interrogarsi sulle cose. Offrendoci la bellezza raggelante di pagine terribilmente splendide.

Ivan Zampar: Ivan Zampar, nato nel 1972 a Udine, risiede da sempre a Cervignano del Friuli. Dopo essere stato avvocato e collaboratore del quotidiano “Il Piccolo”, attualmente è occupato come educatore professionale. Da sempre ama leggere, talvolta scrive. Ha pubblicato due raccolte di racconti (“Incontri”, CulturaGlobale edizioni, 2017; “Quello che ci portiamo dietro”, Besa Muci, 2022) e due romanzi scritti a più mani (“La follia dell’altrove”, con David Ballaminut, Voras edizioni, 2011; Ester – All’ombra del fiume, con David Ballaminute e Fabio Morsut, L’orto della cultura, 2021).
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