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Nivangio Siovara – C’è uno di quelli, là fuori. Trilogia di migrazioni

Violenza, spaesamento e sconcerto furono le prime parole che associai al tema delle migrazioni quando Heiko H. Caimi mi propose di collaborare all’antologia Oltre il confine. Storie di migrazioni (Prospero, 2019): inevitabile provassi un senso di inadeguatezza di fronte a una simile, drammatica questione.
Io non ho mai sperimentato l’amarezza dello sradicamento o l’angoscia cieca della fuga, ad esempio. Realizzavo che, qualsiasi cosa avessi scritto, non avrei ottenuto altro se non uno svilimento della realtà (non rischia, la descrizione d’un male non riconducibile a qualcosa che si sia provato, di ridurlo alla farsa, a un’immagine superficiale e dedotta?) e quindi mi sono detto: l’unico autore che detenga il diritto di rappresentare realisticamente la questione non può che essere il migrante.
Chi, invece, partendo dai pregiudizi che ha frettolosamente costruito attorno alla figura del profugo, del richiedente asilo, dello straniero, alza la mano proponendosi: lui, dice, potrebbe benissimo scrivere qualcosa da quel punto di vista, perché sa di partire da una base ricolma d’indiscusse verità. A torto, ovviamente. Altrettanto ovviamente, indiscusse.
D’altra parte, riflettendoci ancora, sono giunto alla conclusione che pure i vari concetti di violenza, sconcerto e spaesamento sono stati in me ugualmente inculcati dallo stesso sistema che crea il pregiudizio di chi ritiene il migrante l’invasore d’un nemico esercito (irregolare). Ho deciso dunque che per sfuggire a questa sorta di retaggio di massa non avrei potuto fare altro che trascendere il tema attraverso l’allegoria e la metafora. Ho così creato tre racconti “fantastici”.
Quando è stata riconsiderata la mole del volume che li doveva contenere, ne è stato poi selezionato soltanto uno, Incubo. Ed ecco che, per la prima volta, i racconti di questa Trilogia delle migrazioni vengono pubblicati insieme grazie a Inkroci.
Di che cosa trattano?

Mito è ambientato in una sorta di leggendario passato. Espresso in uno stile perlopiù aforistico, vuole tratteggiare l’epica migrazione d’una non meglio specificata tribù. Diversi elementi collocano il villaggio di partenza dei protagonisti in un’epoca d’arretratezza, ma questa è probabilmente soltanto la definizione dentro alla quale molti occidentali calerebbero il presente di alcune popolazioni odierne, ed è dunque un passato relativo. I nostri protagonisti sono costretti a constatare come i loro fratelli e amici spariscano in continuazione, letteralmente dal giorno alla notte. Non c’è in questo la meraviglia che si prova osservando la migrazione degli uccelli, o del polline dei fiori, o della stessa vita umana (Mi raccontò mio padre che la prima volta che emigrai fu quando venni espulso dai suoi lombi, e la prima volta che immigrai fu quando m’accolse il grembo di mia madre), bensì una drammatica urgenza: il rischio del disgregarsi d’un’identità. Unica alternativa sarà dunque raggiungere chi se n’è già andato.
Al termine del viaggio scopriranno di essere arrivati nel luogo da cui parte il male che devasta la loro terra, e che la macchina distruttrice, responsabile del disastro, si alimenta mangiandoseli. Metafora d’un male che forse qualcuno chiamerebbe Capitalismo o Industrializzazione, ma che è sostanzialmente il denaro.

Incubo è ambientato in una società in cui è stato deciso che loro – quando è inevitabile – devono essere obbligatoriamente ospitati, e mostra tale processo attraverso lo sguardo ipocrita della coppia di protagonisti, costretti loro malgrado a lasciarsi invadere la casa dai maiali, animali da sempre sfruttati che si prendono una rivincita che non gli si può negare, ora che sono diventati giusti, ora che… loro non sono più necessari. Anche se i protagonisti sono sempre stati vegetariani (come ormai si presume sia chiunque in questo mondo), ciò che sono e hanno potuto diventare lo devono al tempo in cui la vita dei porci ha ingrassato la ricchezza e la prosperità di cui tuttora godono.
Ho voluto rappresentare il migrante – introducendo un livello interspecifico – così come viene descritto dalla retorica populista: sporco, incivile, barbaro, infetto – ma soprattutto, essenzialmente, diverso: loro non sono come noi – sotto il rivestimento di un animale spregevole per antonomasia. D’altronde più sono schifosi e immorali e più è facile – e giusto – sacrificarli. E poi perché il maiale in natura non esisterebbe: altro non è che il risultato dell’allevamento selettivo. È stato creato perché potessimo mangiarlo: ha questo diritto.
Fateci caso: è lo stesso che capita con i migranti. Chi li ha inventati se non chi ha concepito e accetta come indiscutibile dato di fatto l’esistenza di concetti come le frontiere, le razze, le bandiere, i limiti… i sentimenti nazionali?, e che – riluttante – li divora, soltanto per poi lamentarsi che il boccone era cattivo.
Non esistono, i migranti: ci sono donne e uomini che si spostano all’interno d’un mondo che a ognuno appartiene, che chiunque dovrebbe poter percorrere in lungo e in largo quanto vuole, arrogandosi il diritto di potersi fermare dove gli va. Figuriamoci poi se alle spalle di costoro ci sono guerre, carestie o persecuzioni ideologiche o religiose. Dovremmo andarli a prendere noi, se fossimo buoni come diciamo. Ma se lo facessimo ci sembrerebbe irragionevole, poi, trattarli come animali.

L’ultimo racconto, ambientato nel futuro, narra le vicende d’un’anziana coppia che si crede costretta a dover fronteggiare ciò che appare come l’invasione della propria casa da parte di quelli che si vedono sempre al telegiornale… i disperati! Persone pericolose, che non hanno niente da perdere, che vengono qui a portarci via tutto quello che – noi – abbiamo guadagnato onestamente. Criminali, assassini, stupratori… come minimo.
Senza anticiparvi troppo del finale, Profezia cerca di sciogliere la negatività dei due precedenti racconti mostrando che ci vuole veramente poco a rendersi conto di come – gira e rigira – noi e loro sempre siamo una cosa sola.

Quando Oltre il confine è uscito presso Prospero Editore nel Giugno 2019, il tema della migrazione era rovente. Non crediate che nel frattempo il fronte si sia raffreddato: nel 2020 ci sono stati 34.000 sbarchi e 28.000 richieste d’asilo. Ma semplicemente si tende a non parlarne più se non – di sfuggita – davanti alla tragedia, alla strage; e comunque il naufragio fa altrettanto scalpore quanto un camion che in autostrada ha preso fuoco col suo carico di porci.
Adesso – com’è ovvio – l’attenzione pubblica è interamente dirottata sulla nuova emergenza chiamata Covid-19, una pandemia che è riuscita, ancora di più e una volta ancora, a costringere al distanziamento, a porre nuovi limiti, a chiudere le porte e a diffidare di tutti. Già, perché chiunque può essere asintomatico, ognuno può sguinzagliare la malattia in casa nostra. Adesso anche chi credevamo amico c’arreca la malattia, la morte: potrebbe portarci via tutto. E così, quando questo castigo sarà finito, ci sentiremo più altri, più diversi di prima.
Come ci sta maleducatamente insegnando la pandemia, viviamo in un sistema in cui ogni persona – ogni cosa – è strettamente connessa, e si giunge davanti a un punto di rottura (un vero e proprio crepaccio) in cui dev’essere inevitabile acquisire la consapevolezza del posto che occupiamo nel mondo, perché noi siamo soltanto quello: un sacro luogo. Ci si renda poi conto di come, a ogni passo che calchiamo un po’ più in là quando non è necessario farlo, soltanto per il gusto d’allargarci, costringiamo altri ad arretrare. Se non ne prendiamo coscienza, un bel giorno qualcuno, pensando di essere dalla parte del pieno diritto e compiendo diversi passi in direzioni che egoisticamente amplieranno il suo spazio, con civile fermezza dall’alto di quel crepaccio ci butterà spensieratamente a mare.

P.S.: Potrebbe allora essere illegale venirci a salvare.

Nivangio Siovara: Nivangio Siovara non esiste, è solo uno pseudonimo. Come Atena, è nato dalla testa del padre che non abbandona mai; trascorre, anzi, il proprio tempo ad osservarlo con scientifico interesse. Il risultato è una continua produzione di oscuri scritti. Il genitore, rassegnato, gli concede completa libertà, nella speranza che diventi per lui l'immancabile bastone della vecchiaia. Ha pubblicato con Prospero Editore i romanzi "L'onestà del Moloch" (2017) e "In Albis" (2018), e la raccolta di racconti "Di vento". Suoi racconti sono presenti nelle antologie di Prospero Editore "Oltre il confine" (Prospero, 2019) e "Anch'io" (Prospero, 2021)
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