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Laura Scaramozzino – Bianco

Suona il citofono: un trillo di seguito all’altro. Mentre mamma sta finendo di vestirsi, vado ad aprire. Dovrebbe essere il momento esatto in cui lei fa le smorfie davanti allo specchio.
Sul tavolo del soggiorno ci sono ancora i resti della colazione. Dovrà occuparsene Amanda. Il sole entrerà dalla portafinestra e le sbiadirà la peluria nascosta del volto.
Quando mamma spunta nell’ingresso, la raggiungo. Indossa il cappotto bianco che aveva il giorno in cui papà è morto. Lo portava anche il pomeriggio in cui le ho parlato per la prima volta, vicino alla vasca di sabbia del giardino pubblico. Nella foto dell’album mostravo una faccia fiaccata dal caldo o da un dolore misterioso.
«Leo, devo andare. Ti senti ancora la febbre?»
Scuoto il capo.
«Bene, starai a casa ancora un paio di giorni. Vieni a darmi un bacio, dai. Amanda sarà già dietro la porta, cerca di fare il bravo con lei».
Mi avvicino, mi sollevo sulle punte dei piedi e le do un bacio sulla guancia. Odora di fragole e alcol, un alcol buono senza il guizzo dell’acido cattivo.
«Mi piace Amanda», mormoro.
«Certo che ti piace, ed è anche tua cugina».
Annuisco e abbasso gli occhi.
«Mamma, voglio un gatto».
Lei mi guarda come guarderebbe il letto sfatto e il cestello pieno della lavatrice. Poi, come sempre, osserva un punto sospeso: qualcosa che non esiste tra la polvere e la penombra.
«Vedremo, dai. Non è il momento di parlarne, adesso. Ora scappo. Ciao tesoro».
Mamma apre la porta, saluta Amanda che attende sulla soglia e si precipita giù per le scale.
Quando il sole la investe, sorprendendola in un gesto banale, Amanda assomiglia a un’albina. A una creatura dei boschi dall’aria stanca. Studia arte e dice che vuol diventare una performer. Una volta le avevo chiesto che cosa significasse. Lei si era stretta nelle spalle e mi aveva lanciato uno sguardo vago. Aveva risposto che ero troppo piccolo per capire, perché quel tipo di artisti fa cose estreme con il corpo.
“Tipo gli scalatori o gli atleti del circo?” avevo insistito. Lei si era messa a ridere e mi aveva scompigliato i capelli con la mano.
Le dita e i capelli delle persone si attraggono molto. Il loro contatto genera un piacere puro e selvaggio. Succede come quando si accarezzano i fiori o si afferra con la mano l’aria sferzante fuori dal finestrino di un’auto in corsa.
Le dita di Amanda mi danno i brividi. Lei porta sempre le maniche lunghe, perfino in estate. Una volta l’avevo spiata mentre lavava le tazze e i piatti della colazione. Per non bagnarsi aveva arrotolato le maniche della camicetta sopra i gomiti. Lei pensava fossi in soggiorno con il foglio e i pennarelli. Invece mi ero affacciato sul cucinino, avevo fatto qualche passo in avanti e le avevo visto le braccia.
L’avevo guardata insaponare le stoviglie e sciacquarle. Mamma faceva più rumore quando lavava i piatti. Soprattutto prima.
Sono arrivato così vicino ad Amanda che le sarebbe bastato voltarsi per sorprendermi. Lei non alzava mai la voce. Se durante il giorno facevo qualcosa di sbagliato, non mi parlava più. Mi sorrideva e taceva. Ogni cosa diventava intensa e la luce le si concentrava sul viso. Le ciglia sbiancavano e lei assumeva un’espressione nuda. Esausta.
Non le ho mai detto che cosa ho visto quella mattina. Mi sono allontanato con la massima circospezione. Mamma aveva due cicatrici verticali che le attraversavano i polsi. Se le era procurate dopo la morte di papà. In alcune circostanze le persone si feriscono da sole. Se gli uomini volessero uccidersi, lo farebbero e basta. Le incisioni nella carne sono dei segnali. Ricordano quelli che troviamo sulle strade dissestate. Così mi ha detto la mamma. Siamo tutti strade che portano da qualche parte. La pioggia, la neve o il terremoto possono spaccarci in profondità.
Mentre Amanda sparecchia e rigoverna, sento che è arrivato il momento. Quando mi raggiunge in soggiorno, mi chiede che cosa voglio fare: se mi va di scrivere una storia, di fare i compiti o di disegnare con i pastelli.
Rimango concentrato. Sono seduto sul divano e la sto fissando. Lei mi scruta con una lieve irritazione stampata in faccia. Tempo fa, mi aveva detto come lavorare davanti a una persona che si annoia fosse davvero una cosa snervante. Ma io non mi sto annoiando, sto solo raccogliendo le forze per fare ciò che è giusto.
Quando è successo con la mamma è stato bello. C’è voluto un po’ di tempo prima che i suoi occhi rivelassero piccole scintille. Prima che i lampi di luce furtiva divenissero bagliori calmi. Giorno dopo giorno, la mamma aveva smesso di invecchiare. Aveva capito, di colpo, che poteva rimanere giovane ancora per molto.
Le bottiglie avevano cessato di accumularsi nel sacco nero della spazzatura. Fino ad allora, prima che mi alzassi al mattino, udivo spesso i vetri cozzare nell’aria umida e felpata del ballatoio.
Mamma aveva ricominciato a truccarsi, a uscire e a guardarmi con aria di rimprovero quando mi soffermavo di fronte agli scaffali del giocattolaio. Non biascicava più nella semioscurità della camera. Non barcollava e non cercava il buio come fanno i vampiri.
Solo una cosa non avevo previsto, ma a volte per salvare una persona devi sacrificarne un’altra. O meglio, quell’altra devi cancellarla proprio e far finta che non sia mai esistita.

«Allora, che cosa vuoi fare?» chiede Amanda allentando il colletto del dolcevita con l’indice.
«Io posso aiutarti», rispondo, irrigidendomi un po’.
All’inizio è sempre così. Ci si vergogna, non ci si riconosce. Forse succede sempre quando una cosa ti è piovuta dal cielo.
«Che cosa vuoi dire?»
Amanda mi si siede accanto. Mi sfiora. Ha il respiro accelerato. Attraverso il tessuto dei jeans percepisco l’inquietudine del suo corpo elastico.
«Ho guarito la mamma. Non so come sia stato possibile. Ho sentito che dovevo toccarle i polsi e l’ho fatto. Sentivo un calore nei palmi. All’inizio era piacevole, poi è diventato insopportabile. Non posso dire che bruciasse, era una sensazione diversa. Dolorosa in modo strano. Era come se dovessi liberarmi, trasmettere l’onda di calore che mi gonfiava le mani. Anzi, che mi gonfiava uno spazio intorno alle mani. Si era formata un’energia che sapevo di dover trasmettere. Dovevo dare quell’energia a mia madre. Dovevo curarla. Dovevo guarirla».
Amanda scoppia a ridere in un modo che non le appartiene. Scuote il capo e mi lancia qualche rapida occhiata. A un certo punto, si tiene la pancia e si piega. Come se ridere e soffrire fossero una cosa sola. Una sensazione medesima.
Allora mi allungo sul divano e le sfioro una spalla. Amanda smette di ridere all’istante. Spalanca la bocca come facevo io, qualche anno prima, di fronte a un giocattolo nuovo. Si volta di scatto. Un rossore violento le accende le labbra. Solo sui giovani pieni di stupore e sugli animali braccati, la luce divampa con tanta intensità.
«Le mie non sono ferite, Leo. Queste sono tracce di una performance».
Un pizzicorio inatteso mi frigge la punta delle dita. Discosto le mani e mi allontano dal corpo di Amanda.
«Le ferite non sono sbagliate, Leo. Ci dicono che cosa è stato. Se ora tu le cancelli, io diventerò un’altra persona e perderò il mio orientamento».
«La mamma è guarita», mormoro senza guardarla.
«Dipende dal punto di vista. Suppongo che lei non parli mai di tuo padre. Sono quasi due anni che non ne fa più parola con me e con la zia. All’inizio non capivo perché, ma ora è piuttosto chiaro. Come lo è il motivo per cui lei stia attenta a non mostrarci più i polsi».
Annuisco e penso che il dolore, ormai, sia solo una mia faccenda. Non posso più parlare di papà con la mamma. Non ci riesco. Il suo nome si arrampica sulle labbra e poi scivola in gola come l’atleta buffo di un film comico. Nell’ultimo anno mi sono ammalato tante volte. Ho avuto la febbre, la bronchite e l’influenza gastrointestinale. Forse è vera quella faccenda secondo cui tutto si trasforma e nulla si distrugge. La sofferenza che ho tolto alla mamma mi si è rivoltata contro. Ogni volta che penso a papà e che il suo nome mi muore in gola, mi viene un malanno. Forse perderò anche l’anno scolastico. Per quello che m’importa! Come si fa a scegliere la cosa giusta se l’esito della scelta è una perdita comunque?
Mio padre è morto in un incidente d’auto, mentre tornava a casa dal lavoro. Un ubriaco è uscito dalla sua carreggiata e gli è andato contro.
Ho provato a odiare quell’uomo, ma la persona che disprezzavo di più era la mamma. La mamma che si dimenticava di prepararmi il pranzo e che puzzava di stantio e birra rasposa. Forse provavo quel sentimento perché la vedevo ogni giorno e non si può odiare un fantasma. Un nome sul giornale, un’ombra nella notte.
Ho odiato così tanto la mamma che volevo soltanto smettere di farlo. E tornare ad amarla. Così mio padre è dovuto morire due volte.

Amanda non aggiunge altro. Si alza, mi spettina e sorride. È un po’ più vecchia di prima e ha un’aria meno stravolta.
«Se vuoi fare qualcosa per me, disegna un bel quadro. Qualcosa tipo Matisse o Van Gogh», suggerisce.
«Va bene», sussurro. Mi sollevo e la seguo fino al tavolo con i fogli sparsi.


© 2020 Laura Scaramozzino

Laura Scaramozzino: Laura Scaramozzino (Torino, 1976), ha condotto per dodici anni il programma culturale Dimensione Autore presso la nota emittente piemontese Radio Italia Uno. Ha progettato e tenuto corsi di scrittura creativa di primo e secondo livello per associazioni culturali e presso enti pubblici a Torino, provincia e a Palermo. Ha studiato filosofia e ha collaborato con case editrici locali con cui ha promosso e realizzato laboratori di scrittura Ha pubblicato per i tipi della OAK Editions, il manuale di scrittura creativa: “Percorso creativo. Un viaggio chiamato scrittura” e il romanzo tratto da una storia vera: “L’uomo che salvava le anatre e inseguiva il Big Bang”, Sillabe di Sale Editore. La prefazione è del giornalista Vito Bruschini. Il quotidiano La Stampa di Torino ha dedicato un articolo al libro e alla vicenda che racconta. Ha partecipato alla raccolta di racconti di fantascienza al femminile curata da Emanuela Valentini dal titolo: “Materia oscura”, Delosdigital edizioni. Nell’antologia sono presenti alcune delle migliori autrici italiane del genere. Nel 2019 un suo racconto è stato selezionato per la raccolta di racconti fantastici: “Strane creature” a cura di Lorenzo Crescentini, edito da Watson. Nello stesso anno, l’autrice è stata selezionata per entrare nell’Antologia del premio di racconti weird: “Esecranda”. Nel mese di maggio del 2019 è uscito il suo primo romanzo distopico edito da Watson edizioni, intitolato “Screaming Dora”. A giugno è stata pubblicata la raccolta di racconti “Il grande racconto di Klimt”, Edizioni della Sera, in cui appare il testo: “Cesare va lontano”. A novembre è uscita: “Materanera”, antologia di racconti gialli ambientata a Matera, edita da Bertone. Un suo racconto appare, inoltre, nella raccolta “Piemontesi per sempre”, Edizioni della Sera. Suoi racconti appaiono sulla webzine “Cose di altri Mondi”, curata da Giovanni Mongini, e sul giornale on line “Il CorriereAl”, nella rubrica “AlLibri”, a cura di Angelo Marenzana. Di prossima uscita altre tre antologie con suoi racconti gialli e fantastici. Attualmente, nell’ambito di un progetto dedicato ai più giovani, sta lavorando a un romanzo distopico per ragazzi e, per conto di una casa editrice del settore, a una raccolta di racconti fantastici da lei curata. Ha collaborato con il sito Tom’s Hardware.
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