La banalità del male
Che il protagonista sia lo sterminatore della propria famiglia è sancito dall’incipit. Un criterio limpido per liberarsi, fin da subito, del puro fatto di cronaca. Dopo anni come muratore nell’azienda del suocero, persa la stima della moglie e il rispetto del figlio, Sandro finisce a lavorare in fabbrica, con i ritmi scanditi dai tempi inflessibili delle macchine automatiche. Il disagio di vivere lo spingerà a imbracciare un fucile per mettere a tacere i fantasmi del proprio fallimento.
Questo è l’argine. E non importa il perché, è marginale il dove, e poco significativo il quando. L’attenzione dell’autrice si focalizza sul come. Come si approda a quella deriva? Com’è possibile che un essere umano venga espulso dalla società, con piccole spinte impercettibili, sul baratro della follia? Un sistema che, non riuscendo a metabolizzarti, ti respinge inesorabile, fino a segregarti nel rifugio diroccato della tua mente.
Siamo di fronte a un libro che mette in scena la banalità del male. Un noir scritto in una lingua moderna, un bell’italiano essenziale e dalla precisione chirurgica, intessuto di sapienti pennellate dialettali. Una vicenda che trascina in un vortice dove il tempo, fuori e dentro il protagonista, è scandito da orologi impazziti. Sullo sfondo la provincia italiana che, pur nelle sue peculiarità, evoca i paesaggi di Cormac McCarthy, con descrizioni puntuali e atmosfere di rara bellezza.