I racconti di Canterbury di Pier Paolo Pasolini

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Pier Paolo Pasolini mette in scena il secondo atto della Trilogia della vita sceneggiando i venticinque racconti (due prose e ventitré poemi) dello scrittore inglese Geoffrey Chaucer (1343 – 1400), composti tra il 1386 e il 1400 durante un soggiorno nel Kent, incompleti rispetto a un progetto più ampio. La raccolta parte dalla stessa idea del Decameron di Boccaccio – non è dato sapere se l’autore inglese conoscesse l’opera del fiorentino -, scritta per criticare vizi privati e pubbliche virtù, soprattutto la corruzione della Chiesa e le ipocrisie moralistiche. L’amore – in tutte le sue forme – è il protagonista dei racconti, ma anche la furbizia, l’inganno, la religione, la credulità popolare non sono da meno. I racconti di Canterbury di Pier Paolo Pasolini seguono identico assunto: una cornice narrativa composta da un gruppo di pellegrini che raccontano novelle sulla via per Canterbury, dove devono recarsi per visitare la tomba di Thomas Beckett. Pasolini concluderà la sua Trilogia con l’ambizioso Il fiore delle mille e una notte (1974), prima di cadere nei cupi abissi senza ritorno di Salò (1975).

Pier Paolo Pasolini si cala nelle vesti dello scrittore Geofrrey Chaucer e in una delle prime sequenze fa dire a un personaggio la battuta desunta da Menandro: “Tra scherzi e giochi, grandi verità si possono dire!”. Il regista avverte lo spettatore che sta entrando nel territorio della commedia, in questo caso erotica, ma che l’autore conserva l’ambizione di criticare i costumi senza scadere nella farsa ridanciana: vorrebbe mettere in pratica quel ridendo castigat mores in cui tanto crede. Otto racconti collegati a un prologo, uniti dal collante del viaggio a Canterbury, con intermezzi dello scrittore che sorride per le sue trovate e viene persino sgridato da una burbera consorte.

I racconti di Canterbury vince l’Orso d’Oro a Berlino ma è tra i film più censurati e perseguitati di Pasolini, secondo solo a Salò, per il forte messaggio anticlericale più che per i numerosi nudi integrali maschili e femminili. Rivisto oggi sembra tutto molto strano, perché i rapporti sessuali, i tradimenti, le irriverenze contro la religione e l’ordine costituito sono presentati in chiave grottesca e sono caratterizzati da una recitazione sopra le righe che non lascia spazio al morboso.

Le storie in sintesi. Un ricco mercante perde la vista ma la ritrova appena in tempo per vedere il tradimento della giovane moglie; un diavolo assiste all’uccisione di un omosessuale sul rogo della Santa Inquisizione ma si porta all’inferno il giudice corrotto che l’ha condannato; un altro diavolo precipita nel fuoco eterno un malfattore dopo averlo illuso della sua amicizia; un buffone cerca lavoro e porta scompiglio in una città inglese; due giovani seducono la moglie di un falegname; una donna sposa uno studente come quinto marito ma le cose non vanno come vorrebbe; due studenti si vendicano di un mugnaio portandosi a letto moglie e figlia; tre giovani malfattori si uccidono a vicenda per un tesoro; un frate viene condotto all’inferno per conoscere le punizioni divine riservate ai religiosi corrotti. “I mariti si lamentano delle mogli, i padri dei figli, gli ecclesiastici si insultano a vicenda e le suore vengono allegramente prese in giro”: una frase che pare la sintesi perfetta delle storie.

Lo spirito di Chaucer è conservato integro in questa curata trasposizione di Pasolini che si avvale delle scenografie di Dante Ferretti, delle musiche popolari inglesi e irlandesi assemblate da Ennio Morricone (scelte dal regista) e di una solare fotografia di Tonino Delli Colli. Tutto è perfetto, da una ben oliata sceneggiatura – scritta con puro stile pasoliniano – al montaggio compassato di Nino Baragli, per finire con i costumi e il trucco, privi di ogni sbavatura. Sergio Citti è aiuto regista insieme a Umberto Angelucci e all’assistente inglese Peter Shepherd, per un lavoro che gli sarà molto utile nell’affinare la sua vena grottesca e fantastica, unita agli elementi antiborghesi e anticlericali. Interpreti professionisti e di impostazione teatrale (Griffith, Betti) si alternano a volti di borgatari e di ragazzi inglesi, oltre ai soliti Franco Citti (perfetto come diavolo) e Ninetto Davoli (Charlot calato nel Medio Evo). Eduardo De Filippo presta la sua voce a un vecchio saggio che ammonisce tre ragazzi a non farsi lusingare dalle facili ricchezze. Pasolini avrebbe voluto Orson Welles, nel ruolo del ricco mercante che sposa una giovane donna interpretato da Griffith. Tra i doppiatori importanti ricordiamo Marco Bellocchio (frate) e Francesco Leonetti (oste).

Il tono del film è grottesco, l’erotismo è delimitato nel territorio della comicità, anche se i soggetti e le trame saranno tra le più saccheggiate dal decamerotico: persino il titolo verrà usato con modifica volgare ne I racconti di Viterbury (1973) di Mario Caiano (nascosto sotto lo pseudonimo di Edoardo Re). Tra le cose migliori del film l’episodio di Perkin il festaiolo, interpretato da un grandissimo Ninetto Davoli che imita Charlot e interpreta una sceneggiatura a base di torte in faccia e fast-motion, chiaro omaggio al cinema muto. Ricordiamo le sequenze dove il diavolo spia non dal buco della serratura (come nella commedia sexy) ma tra le tavole sconnesse delle porte. Molte idee verranno riprese dal decamerotico e dalla commedia sexy, non ultima quella del peto in faccia al postulante che si vendica con un palo rovente infilato nell’ano del rivale. Eccellente il racconto del frate avido con il viaggio all’inferno dove assistiamo a un’esplosione di cinema fantastico e surreale – forse la parte più eccessiva del film – dove i religiosi corrotti vengono espulsi dagli ani dei diavoli come se fossero feci. La scena dell’inferno viene girata sull’Etna per rendere bene l’idea delle emissioni sulfuree, mentre gran parte della pellicola è effettuata a Canterbury. Il finale vede Pasolini-Chaucer scrivere: “Qui finiscono i racconti di Canterbury, narrati solo per il piacere di raccontarli. Amen”.

Il film viene girato da settembre a novembre 1971, debutta al festival di Berlino il 2 luglio 1972 nella versione da due ore e venti minuti, vincendo l’Orso d’oro. In Italia esce a Benevento il 2 settembre 1972, gravato dal divieto ai minori di anni 18, e deve subire diversi processi e sequestri per oscenità, che portano alla condanna del produttore Alberto Grimaldi e del proprietario del cinema, in seguito assolti. Il film torna libero nel dicembre 1973 e riscuote un buon successo di pubblico (oltre due miliardi di incasso, undicesimo film più visto della stagione 1972 – 73).

La critica. Paolo Mereghetti (due stelle): “Nonostante un incastro narrativo divertente il film rischia di apparire un calco devitalizzato del Decameron (Volpi), privo della vitalità e dell’autenticità che l’autore si augurava”. In realtà la giuria del Festival di Berlino la pensa in maniera diametralmente opposta, assegnando l’Orso d’oro proprio per la maestria e la vitalità con cui il regista ha interpretato una grande opera letteraria.
Pino Farinotti (quattro stelle): “I racconti che narrano i pellegrini per ingannare la noia sono ora drammatici, ora farseschi, ora teneri, ora grossolani”. Il noto critico non motiva il generoso giudizio, in compenso afferma che I racconti di Canterbury è un’opera letteraria del Trecento (sic!).
Morando Morandini (tre stelle/quattro per il pubblico): “Il segmento più debole della Trilogia della vita. Chaucer è un grande umorista; Pasolini è talvolta ilare, ma quasi privo di umorismo. Nell’uno c’è gaiezza in penombra, nell’altro tetraggine. Il primo è licenzioso, il secondo scurrile con un programmata provocazione in cui entrano, forse, anche il calcolo e un esibizionismo quasi infantile. A livello figurativo sono innegabili l’occhio e il gusto di Pasolini, ma non c’è più l’orecchio, almeno nell’edizione italiana. Non mancano le figure azzeccate (Betti, Citti) né gli episodi riusciti, ma l’amalgama non convince”.

I racconti di Canterbury resta uno dei film più contestati e incompresi di Pasolini, che usa il linguaggio del corpo in funzione provocatoria e le immagini estreme per allargare il limite del rappresentabile a tutto ciò di cui si può avere esperienza. “Io credo che questi miei film finiscano con l’essere anche politici perché vanno controcorrente alla moda, sbagliata e ipocrita, dei film impegnati e politicamente qualunquisti”, dice Pasolini. Nonostante tutto la critica internazionale – soprattutto quella inglese – stronca il film con l’accusa di vuotezza e di banalizzazione della materia.


Regia: Pier Paolo Pasolini. Soggetto: Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer. Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini. Fotografia: Tonino Delli Colli (Technicolor). Edizione: Enzo Ocone. Musiche: Pier Paolo Pasolini (selezione a cura di), con la collaborazione di Ennio Morricone. Costumi: Sartoria Farani. Direttore di Produzione: Alessandro Von Normann. Costumi: Danilo Donati. Scenografia: Dante Ferretti. Aiuti Regia: Sergio Citti, Umberto Angelucci. Assistente Regia: Peter Shepherd. Assistenti Montaggio: Ugo De Rossi, Anita Acciolati. Fotografo di Scena: Mimmo Cattarinich. Mixage: Gianni D’Amico. Aiuto Operatore: Maurizio Lucchini. Aiuto Sceneggiatore: Carlo Agate. Aiuto Costumista: Vanni Castellani. Arredatore: Kenneth Muggleston. Trucco: Otello Sisi. Fonico: Primiano Muratori. Effetti Speciali: Luciano Anzillotti. Operatore alla Macchina: Carlo Tafani. Produttore: Alberto Grimaldi. Casa di Produzione: PEA – Produzioni Europee Associate sas (Roma). Interpreti: Hugh Griffith, Laura Betti, Ninetto Davoli, Franco Citti, Josephine Chaplin, Alan Webb, Pier Paolo Pasolini, J. P. Van Dyne, Vernon Dobtcheff, Adrian Streeet, Ot, Derek Deadmin, Nicholas Smith, George Datcia, Dan Thomas, Michael Balfour, Jenny Runacre, Peter Cain, Daniel Buckler, John Francis Lane, Settimo Castagna, AtholCoats, Judy Stewart Murray, Tom Baker, Oscar Fochetti, Willoughby Goddard, Peter Stephens, Giuseppe Arrigo, Elisabetta Genovese, Gordon King, Patrick Duffett, Eamann Howell, Albert King, Eileen King, Heather Johnson, Robin Asquith, Martin Whelar, John McLaren, Edward Monteith Kervin, Franca Sciutto, Vittorio Fanfoni. Anno: 1972.

 

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Gordiano Lupi (Piombino, 1960), Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio, ha collaborato per sette anni con La Stampa di Torino. Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz e ha pubblicato numerosissimi volumi su Cuba, sul cinema e su svariati altri argomenti. Ha tradotto Zoé Valdés, Cabrera Infante, Virgilio Piñera e Felix Luis Viera. Qui la lista completa: www.infol.it/lupi. Ha preso parte ad alcune trasmissioni TV come "Cominciamo bene le storie di Corrado Augias", "Uno Mattina" di Luca Giurato, "Odeon TV" (trasmissione sui serial killer italiani), "La Commedia all’italiana" su Rete Quattro, "Speciale TG1" di Monica Maggioni (tema Cuba), "Dove TV" a tema Cuba. È stato ospite di alcune trasmissioni radiofoniche in Italia e Svizzera per i suoi libri e per commenti sulla cultura cubana. Molto attivo nella saggistica cinematografica, ha scritto saggi (tra gli altri) su Fellini, Avati, Joe D’Amato, Lenzi, Brass, Cozzi, Deodato, Di Leo, Mattei, Gloria Guida, Storia del cinema horror italiano e della commedia sexy. Tre volte presentato al Premio Strega per la narrativa: "Calcio e Acciaio - Dimenticare Piombino" (Acar, 2014), anche Premio Giovanni Bovio (Trani, 2017), "Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano" (Historica, 2016), "Sogni e Altiforni – Piombino Trani senza ritorno" (Acar, 2019).

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