La rabbia di Pier Paolo Pasolini e Giovannino Guareschi (1963)

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La rabbia nasce da una proposta fatta a Pasolini dal produttore Gastone Ferranti, che possiede migliaia di metri di pellicola di vecchi cinegiornali e altri pezzi inediti reperiti in Unione Sovietica, dai quali vorrebbe tirare fuori un documentario di montaggio basato sul tema di una vita dominata da scontentezza, angoscia e timore della guerra. Pasolini raccoglie la sfida e inventa un nuovo modo di fare cinema – insolito quanto si vuole ma riuscito e originale – scrivendo un testo lirico, basato su versi letti da Giorgio Bassani (parte poetica) e Renato Guttuso (parte narrativa), partendo da cinegiornali reazionari e fascisteggianti.

L’ambizione di Pasolini è quella di realizzare un saggio ideologico-poetico, che pare una contraddizione in termini ma che riesce alla perfezione, pur nella sua assoluta non commercialità. Fare cinema commerciale non è mai stata ambizione di Pasolini, neppure quando è stato accusato – in maniera assurda – di fare pornografia e di basare il suo cinema sugli istinti più bassi del pubblico (la Trilogia della vita).

Il film viene giudicato troppo ideologico dal produttore, eccessivamente schierato e rivoluzionario, pure se il comunismo del poeta non è in linea con il modo di pensare dei seguaci di Togliatti, filosovietici a ogni costo. Pasolini suggerisce a Ferranti di far seguire al suo documentario un’analisi di opposta tendenza, proponendo come autori Montanelli e Barzini. Ferranti, invece, opta per Giovannino Guareschi, direttore della rivista satirica Bertoldo, divenuto famoso per l’epopea di Peppone e Don Camillo che, dalla narrativa, ha conquistato il grande schermo. Pasolini resta così disgustato dalla seconda parte che vorrebbe ritirare la firma come regista e ne avrebbe ogni motivo, perché il testo di Guareschi è intriso di qualunquismo, infarcito di luoghi comuni, risulta reazionario e caratterizzato da un becero razzismo. Gualtiero Jacopetti, forse, sarebbe stato più moderato, portando prove documentarie maggiori a dichiarazioni apodittiche che sconvolgono e disorientano il povero spettatore. Pasolini è vincolato da un contratto e non può ritirare il nome dai titoli, quindi il film esce nei cinema, solo per pochi giorni, registrando un totale insuccesso, anche perché scontenta sia la destra che la sinistra. I comunisti italiani non sono d’accordo con la rivoluzione poetica di Pasolini, che vede la realizzazione del sogno di una cosa nel tornare ai mestieri dei padri, che spiega come la perdita di artigianato e agricoltura porterà alla fine della nostra società, che critica borghesia e consumismo, persino un certo malinteso progresso.

La rabbia è composto da due film diametralmente opposti come stile e contenuti; a nostro avviso tutta la parte scritta da Pasolini presenta ancora un valore letterario, pur restando superata dalla storia.

La prima parte del documentario è caratterizzata da una grande ispirazione poetica che cerca di conciliare l’amore per la tradizione con la rivoluzione, cosa che i comunisti del tempo e i futuri sessantottini non possono capire, con il classico tema da forza del passato che segna la lirica di Pasolini. Ricordiamo brani di pura poesia per criticare l’invasione sovietica sotto il nero sole d’Ungheria, aggiungendo che le colpe di Stalin sono le nostre colpe, inneggiando alla libertà ma con allegria. E come dimenticare la nera serata di Parigi, i morti di Suez, del Congo, Gandhi e l’India, la libertà dei popoli africani in rivolta e la Rivoluzione Cubana? Ottima la colonna sonora latina e suadente, con quel refrain lirico che sembra non finire: morire a Cuba, combattere a Cuba, con le immagini di Fidel Castro e della Sierra Maestra. Pasolini parla da convinto rivoluzionario – sempre poetico, chiaro, mai con il fucile in mano, ché lui odia guerra e violenza – e non poteva sapere (nel 1963) la fine che avrebbero fatto certe idee che partivano da presupposti di giustizia sociale. Non manca l’accusa al capitalismo e alla religione borghese, il bisogno di credere per dare un senso alla speranza e alla colpa, così come abbiamo l’esaltazione del papa buono unita alla lenta morte del mondo contadino e artigiano. Pasolini è convinto che la rivoluzione si debba fare conservando la tradizione e che non c’è cambiamento maggiore di un ritorno al passato, di un figlio che si riconosce nel padre ma che per la prima volta può studiare, grazie al nuovo corso. La teoria della lotta di classe nella poesia di Pasolini assume toni decadenti e languidi, sempre condannando la guerra come un terrore che non vuol finire. Stupenda tutta la parte poetica dedicata a Marylin Monroe, chiamata sorellina e bambina, vista come simbolo immortale d’una bellezza che sparisce come una colombella d’oro.

Per quanto è suggestiva la prima parte, così risulta irritante e fastidiosa la sequela di luoghi comuni imbastita da Guareschi, che se la prende con tutti, dai negri rei di essersi ribellati ai bianchi buoni colonialisti, alla frenesia della vita moderna che vede nei marxisti i soli colpevoli di ingiustizie, perché protestano e scioperano. Va da sé che Guareschi non può fare a meno di presentare la rivoluzione cubana come un modo per vendicarsi dei nemici e persino il processo di Norimberga come una serie di vendette organizzate dal vincitore ai danni degli sconfitti. Poche cose sono condivisibili, al punto che al termine resta solo un senso di squallore che cancella persino tutta la poesia della prima parte, ideologica e schierata, certo, ma con stile.

Resta il messaggio di Pasolini, che indica la strada di una vera rivoluzione da praticarsi dentro i nostri spiriti, ricercando le strade del passato, la nostra tradizione, combattendo le spinte violente e la filosofia perniciosa dell’uomo medio.

Regia: Pier Paolo Pasolini e Giovannino Guareschi (un film in due parti). Parte Prima – Soggetto e Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini. Aiuto Regia: Carlo di Carlo. Commento in versi: Pier Paolo Pasolini, letto da Giorgio Bassani (voce in poesia) e Renato Guttuiso (voce in prosa). Musica: Pier paolo Pasolini (scelta da). Montaggio: Pier Paolo Pasolini, Nino Baragli, Mario Serandrei. Organizzatore Generale: Antonio Morelli. Casa di Produzione: Opus Film. Produttore: Gastone Ferranti. Formato: 35 mm. Bianco/ Nero. Sviluppo e Stampa. S.P.E.S.. Distribuzione. Warner Bros. Realizzazione: Gennaio – Febbraio 1963. Durata: 53’.

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Gordiano Lupi (Piombino, 1960), Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio, ha collaborato per sette anni con La Stampa di Torino. Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz e ha pubblicato numerosissimi volumi su Cuba, sul cinema e su svariati altri argomenti. Ha tradotto Zoé Valdés, Cabrera Infante, Virgilio Piñera e Felix Luis Viera. Qui la lista completa: www.infol.it/lupi. Ha preso parte ad alcune trasmissioni TV come "Cominciamo bene le storie di Corrado Augias", "Uno Mattina" di Luca Giurato, "Odeon TV" (trasmissione sui serial killer italiani), "La Commedia all’italiana" su Rete Quattro, "Speciale TG1" di Monica Maggioni (tema Cuba), "Dove TV" a tema Cuba. È stato ospite di alcune trasmissioni radiofoniche in Italia e Svizzera per i suoi libri e per commenti sulla cultura cubana. Molto attivo nella saggistica cinematografica, ha scritto saggi (tra gli altri) su Fellini, Avati, Joe D’Amato, Lenzi, Brass, Cozzi, Deodato, Di Leo, Mattei, Gloria Guida, Storia del cinema horror italiano e della commedia sexy. Tre volte presentato al Premio Strega per la narrativa: "Calcio e Acciaio - Dimenticare Piombino" (Acar, 2014), anche Premio Giovanni Bovio (Trani, 2017), "Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano" (Historica, 2016), "Sogni e Altiforni – Piombino Trani senza ritorno" (Acar, 2019).

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