Due pezzi di pane

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Sergio Citti scrive una favola poetica sul cambiamento dei tempi con la collaborazione alla sceneggiatura di Giulio Paradisi, armato di molta ispirazione pasoliniana. Due pezzi di pane è un vero e proprio apologo che si sviluppa dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, che vede protagonisti Pippo (Gassman) e Peppe (Noiret), due suonatori ambulanti. I due sono amici da sempre; cresciuti in un orfanatrofio hanno imparato a suonare flauto e chitarra, e si guadagnano da vivere frequentando osterie, parchi pubblici, luoghi dove la gente concede qualche soldo in cambio di musica. Pippo e Peppe amano la stessa donna, Lucia (Melato), che frequentano a giorni alterni, all’insaputa l’uno dell’altro, ma quando la ragazza muore dopo aver partorito un figlio non è possibile stabilire chi dei due sia il padre. Il neonato viene affidato a un istituto ma i due padri lo rapiscono e lo adottano come figlio, dandogli il nome di Piripicchio (La Torre). Il ragazzo cresce in una realtà troppo cambiata rispetto agli anni Cinquanta: nonostante l’educazione ricevuta diventa cinico e individualista, e si costruisce una famiglia escludendo Pippo e Peppe dalla sua vita. I due amici, dopo aver preso una colossale sbronza, si lasciano morire di dolore su una panchina del parco, davanti a un grande e simbolico condominio appena edificato.

Due pezzi di pane è un film originale che prende il via con toni musicali tradizionali impostati da un narratore, che introduce in un’osteria cantando ‘O sole mio, uno strano locale chiamato Pizzeria dell’Uovo perché vede il disegno di un uovo al centro della sala, dove si esibiscono ogni sera Pippo e Peppe. L’oste è Luigi Proietti, personificazione del Destino, visto che conosce l’avvenire, dalle piccole alle grandi cose: prevede un temporale, la carcerazione dei due ambulanti, persino il futuro di un figlio. Il pizzaiolo canta con gli ambulanti una canzone triste, che definisce la prima canzone composta sulla faccia della Terra, la canzone originaria, che riporta tutti i mali del mondo alla costruzione di un castello, in pratica alla nascita della proprietà privata.

La storia procede per momenti poetici e grotteschi, con molti brani musicali e grande attenzione nel creare un’atmosfera sognante e nostalgica del tempo perduto. Basti pensare ai due suonatori accolti benevolmente in un’auto da due innamorati per intonare Amado mio come colonna sonora del loro rapporto. Sequenza che per contrasto rivediamo vent’anni dopo in una Roma cementificata, con gli innamorati che chiudono i finestrini e accendono l’autoradio. Comica e grottesca la parte delle elezioni, con Pippo e Peppe che votano comunista, fanno vedere la loro preferenza e scatenano un parapiglia tra scrutatori di opposta fede politica per annullare il voto, con una singolare quadriglia campestre che conclude la sequenza. Da notare che lo scrutatore comunista fischietta Bandiera rossa mentre il democristiano lo rimprovera, infine quando scoppia la gazzarra i due vengono alle mani. Siamo al puro avanspettacolo, quasi alla commedia musicale condita di stornelli e di soluzioni surreali, commedia che si trasforma in farsa, pochade che termina in bagarre. Ottime le scene ambientate in prigione, dove i due suonatori compongono un complesso di carcerati per intonare una canzoncina irriverente, una sorta di stornello romanesco intitolato L’abbacchio.

Tutto è molto surreale, se vogliamo persino edulcorato, per far vedere come nel passato tutto fosse più bello e naturale, persino il carcere, mentre con il consumismo, la cementificazione e la perdita di valori consociativi, le relazioni umane si sono andate deteriorando. Il rapporto tra i due suonatori e la ragazza viene descritto con grande poesia: entrambi suonano flauto e chitarra, portano in dono le poche cose da mangiare che il pizzaiolo regala loro ogni sera, e finiscono per fare l’amore con la donna che cambia la foto dell’amante secondo il turno di ricevimento. Il regista mostra anche una partita di calcio disputata in un campetto sterrato di borgata dove i giocatori indossano divise scucite e calzettoni improvvisati, mentre i nostri eroi intonano Fratelli d’Italia e danno il via alla competizione.

La parte processuale per l’attribuzione del figlio – con lo scrittore Paolo Volponi nei panni del giudice – vede due opposte fazioni parteggiare per la paternità dell’uno o dell’altro, ma la disputa si conclude con un nulla di fatto ed è molto divertente da un punto di vista cinematografico. La sentenza che affida il figlio a un orfanatrofio divide Pippo e Peppe solo per poco tempo, perché il Destino (Proietti), nei panni del solito pizzaiolo, li fa ritrovare, così comincia la loro avventura da padri con un discorso che anticipa i tempi sulla possibilità di adottare un bambino da parte di due uomini.

Il Destino salva dalla morte per asfissia i due amici e riporta in vita Piripicchio, che in un primo tempo sembrava defunto, anche se ammonisce di fare attenzione al futuro, dicendo ai suonatori che forse sarebbe stato meglio che il bambino fosse morto. Passa il tempo, Piripicchio cresce in un mondo troppo diverso da quello in cui è nato: non bastano gli insegnamenti naturali di Pippo e Peppe, certe canzoni non vanno più di moda, gli innamorati non gradiscono Amado mio ma accendono le autoradio, le osterie non sono più frequentate, i borgatari vestono giacca e cravatta e fanno studiare i figli, al posto della campagna vengono edificati orribili condomini.

Sergio Citti (memore degli insegnamenti di Pasolini) accusa la modernità di aver cambiato l’uomo, di aver modificato le atmosfere amicali degli anni Cinquanta, di aver reso inutile quel che prima era fondamentale. Non è difficile vedere uno sviluppo dell’idea pasoliniana dell’uniformità dilagante, dei volti che non designano più un’appartenenza sociale, della borghesia che prende possesso di un mondo e lo piega al proprio volere. Vediamo la discoteca al posto delle canzoni da osteria, il grande ristorante che si sostituisce alla bettola, i palazzoni invece delle piccole costruzioni, le persone che diventano individualiste e si rinchiudono in un piccolo mondo privato. Piripicchio segue i passi della massa, fugge di casa, si costruisce una famiglia, ripudia il passato, si normalizza, diventa un borghese. I due genitori alternativi possono solo suonare e piangere, e come due relitti del passato si lasciano morire di dolore su una panchina di un parco pubblico, proprio davanti a un orribile condominio appena costruito.

Due pezzi di pane è un film padroneggiato da una regia sapiente e matura, cinematografia naturale tipica di Citti che alterna cattiveria a poesia, macchina da presa che indaga in soggettiva gli stati d’animo delle persone con frequenti primi piani e alcuni piani sequenza. Aiuto regista è Ninetto Davoli, che sarebbe stato un buon interprete nei panni del figlio, altro artista naturale di scuola pasoliniana. Fotografia patinata di una Roma anni Cinquanta che si alterna a quella più realistica di fine anni Settanta, ben gestita da Ruzzolini. Il montaggio di Baragli è in perfetta sintonia con il tono compassato e malinconico della pellicola, così come le musiche nostalgiche di Alessandroni realizzano una totale compenetrazione tra sceneggiatura e colonna sonora. I tre protagonisti sono perfetti. Gassman e Noiret semplicemente straordinari in due ruoli da fiaba, per niente facili da rendere con gesti concreti da attori e con tonalità teatrale altissima. Proietti è sardonico ed efficace nei panni del Destino. Diligenti Melato e La Torre, la prima poco utilizzata, il secondo impegnato in un ruolo rapido ed essenziale.

Opera poco conosciuta di Citti, forse sottovalutata, mentre contiene la summa di tutto il suo cinema, a metà strada tra poesia e critica sociale, tra rimpianto del bel tempo andato e crudo cinismo. Girato tra Roma e Ostia per gli esterni; la parte in galera nel Carcere Minorile del San Michele, luogo molto frequentato dal cinema italiano; interni alla De Paolis.

La critica. Paolo Mereghetti (due stelle e mezzo): “Triste apologo sulla fine di certe atmosfere romane degli anni Cinquanta, generose e amicali, quando ancora si andava in osteria a ridere e bere insieme, fatte morire dai freddi e cementificati anni Settanta. Scritto da Citti con Giulio Paradisi (e il contributo di Pasolini) è un film decisamente inconsueto nel panorama italiano, non perfettamente padroneggiato e un po’ troppo malinconico nel suo rimpianto, ma originale e coraggioso”. Morando Morandini (due stelle e mezzo): “Nella parte di avvio (la più bella), il film offre momenti di grazia bizzarra, figurette schizzate con un lapis leggero e sicuro, situazioni e aneddoti scorciati con placido brio e astuzia sorniona. Poi la favola rivela la sua troppo programmatica ambizione poetica. E invece della poesia si scivola nel poeticismo”. Pino Farinotti concede tre stelle ma si limita a un rapido riassunto della trama.

Regia: Sergio Citti. Soggetto e Sceneggiatura: Sergio Citti. Collaboratore alla Sceneggiatura: Giulio Paradisi. Scenografia: Luciano Ricceri. Costumi: Mario Ambrosino. Fotografia: Giuseppe Ruzzolini (Technicolor). Montaggio: Nino Baragli. Musiche: Alessandro Alessandroni. Aiuto Regista: Umberto Angelucci. Assistente Regia: Ninetto Davoli. Ufficio Stampa: Nico Naldini. Operatore alla Macchina: Enrico Cortese. Fotografo di Scena: Deborah Beer. Fonico: Massimo Jaboni. Microfonista: Giulio Viggiani. Trucco: Giulio Natalucci. Teatri di Posa: De Paolis Incir (Roma). Registrazioni Sonore: Cinemontaggio App. Westrex Recording System. Fonici: Mario Lupi, Sandro Occhetti. Effetti Speciali: Luciano Anzellotti. Edizione Italiana: D. B. Services – C. D. Coop Doppiatori. Negativi: Eastmancolor. Sviluppo e Stampa: Technicolor (Roma). Direttore di Produzione: Paolo Vandini. Produttori: Gianfranco Piccioli, Mauro Berardi. Case di Produzione: Parva Cinematografica (Roma), Les Productions Artistes Associes SA (Parigi). Paesi di Produzione: Italia, Francia. Genere: Commedia, Grottesco. Durata: 110’. Interpreti: Vittorio Gassman (Pippo), Philippe Noiret (Peppe), Luigi Proietti (Pizzaiolo), Paolo Volponi (Giudice), Anna Melato (Lucia), Alessandro la Torre (Piripicchio), Giorgio Martina, Tiberio Simmi, Nicolas Barthe, Helen Chauvin, Claudio de Angelis, Maria Grazia Bon, Bruna Simionato, Daniela Piperno, Roberto Castri, Vinicio Diamanti, Nicola D’Eramo, Alviero Martini, Piero Morgia, Roberto Simmi.  Anno: 1979

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Gordiano Lupi (Piombino, 1960), Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio, ha collaborato per sette anni con La Stampa di Torino. Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz e ha pubblicato numerosissimi volumi su Cuba, sul cinema e su svariati altri argomenti. Ha tradotto Zoé Valdés, Cabrera Infante, Virgilio Piñera e Felix Luis Viera. Qui la lista completa: www.infol.it/lupi. Ha preso parte ad alcune trasmissioni TV come "Cominciamo bene le storie di Corrado Augias", "Uno Mattina" di Luca Giurato, "Odeon TV" (trasmissione sui serial killer italiani), "La Commedia all’italiana" su Rete Quattro, "Speciale TG1" di Monica Maggioni (tema Cuba), "Dove TV" a tema Cuba. È stato ospite di alcune trasmissioni radiofoniche in Italia e Svizzera per i suoi libri e per commenti sulla cultura cubana. Molto attivo nella saggistica cinematografica, ha scritto saggi (tra gli altri) su Fellini, Avati, Joe D’Amato, Lenzi, Brass, Cozzi, Deodato, Di Leo, Mattei, Gloria Guida, Storia del cinema horror italiano e della commedia sexy. Tre volte presentato al Premio Strega per la narrativa: "Calcio e Acciaio - Dimenticare Piombino" (Acar, 2014), anche Premio Giovanni Bovio (Trani, 2017), "Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano" (Historica, 2016), "Sogni e Altiforni – Piombino Trani senza ritorno" (Acar, 2019).

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