Profondo Rosso

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Assistiamo a un congresso di parapsicologia che si tiene a Roma. Helga Ulmann (Macha Méril), una medium tedesca, percepisce la presenza nella sala di una persona con pensieri di morte, che ha già ucciso e ucciderà ancora. La sera stessa verrà assassinata. Con lei tutti coloro che si avvicineranno all’individuazione del serial killer. Al caso indagherà privatamente un pianista inglese, Marcus (Marc) Daly (David Hemmings), insegnante al conservatorio, e testimone oculare dell’omicidio della telepate.

Uno dei temi centrali di questo thriller psicologico è la fallacia della memoria. Come afferma lo stesso Dario Argento, quello della memoria è un tema a lui molto caro. Essa non è mai esatta, evolve nella mente col tempo, è forgiata dalla nostra cultura e dalle nostre convinzioni, ed è il motivo per cui i testimoni di uno stesso fatto danno spesso visioni differenti.

Al fianco di Marc, lo spettatore fa esperienza in prima persona dell’inganno perpetrato dalla percezione. Lo specchio diviene l’emblema di questo raggiro: da oggetto rivelatore per eccellenza, qui ci illude, pur contenendo la verità.
Appare evidente, a questo proposito, l’influenza esercitata sul regista dal capolavoro di Michelangelo Antonioni Blow-up (1966), cui è sicuramente debitore. In entrambe le pellicole, infatti, il protagonista, interpretato peraltro dallo stesso David Hemmings, rimane vittima dell’inattendibilità del proprio sguardo.

Sublime la scena notturna girata a Torino, in una Piazza C.L.N. vuota, in cui Marc e Carlo (Gabriele Lavia), anche lui pianista, appaiono piccoli piccoli rispetto alla monumentalità dell’allegoria antropomorfa del Po. Proprio ai bordi di questa fontana, riecheggiando l’atmosfera della celebre scena di La Dolce Vita, Carlo fornisce la chiave di lettura del film: “Sai, certe volte quello che vedi realmente e quello che immagini si mischia nella memoria come un cocktail, del quale tu non riesci più a distinguere i sapori.” “Ma io ti sto dicendo la verità!” “No, Marc, tu credi di dire la verità e invece dici soltanto la tua versione della verità”. Questo scambio di battute avviene in campo lungo, quasi a dichiarare un messaggio universale, che travalica i confini strettamente narrativi. Carlo si fa, dunque, portavoce di un personale e molto sentito pensiero del regista.

Il personaggio di Carlo risulta uno dei più interessanti per complessità. Egli è un’altra vittima della madre: non viene ucciso fisicamente, bensì psicologicamente, dal momento in cui assiste all’assassinio del padre. Carlo si rifugia in una vita di eccessi, ma trova la propria salvezza e luogo di elaborazione dei propri traumi nell’arte, a partire dal disegno realizzato da bambino, ma in particolare con la sua carriera di musicista. Rivolto a Marc dirà: “Tu suoni per l’arte e ci godi, io lo faccio per sopravvivere, e non è la stessa cosa”. Solo a posteriori si comprende che non fa riferimento esclusivamente alla dimensione economica.

Carlo si scoprirà poi essere omosessuale, e per Argento è l’occasione di lanciare un messaggio all’avanguardia per l’epoca (si parla del 1975). Marc, trovandolo nel letto dell’amante, dirà: “Non me ne frega niente dei tuoi gusti, ma ti ho già detto una volta che non si dura tanto a bere come fai tu”.
Anche la figura femminile di Gianna Brizzi (Daria Nicolodi) risulta piuttosto moderna nel suo essere indipendente, nello svolgere una professione ad appannaggio perlopiù maschile, come quella del reporter, provocando e chiamando a una riflessione gli uomini che la circondano, forti di un solido patriarcato eretto in millenni di disciminazione.

In Profondo Rosso un ruolo essenziale è rivestito certamente dalla musica. La colonna sonora, una delle più memorabili della storia del cinema, porta la firma dei Goblin, gruppo progressive italiano allora emergente e portato al successo proprio da Dario Argento, grazie a questo lungometraggio. Interessante l’utilizzo della musica rock nei momenti di maggior tensione, mentre un riff insistente di chitarra accompagna l’indagine di Marc, interrompendosi bruscamente nel momento in cui egli calpesta un vetro, così come accade al suo flusso di pensieri.
Per quanto riguarda la musica diegetica, la nenia infantile, riprodotta da un mangianastri, funge da catalizzatore per l’assassino, che, con essa, ricrea le condizioni e le sensazioni del primo omicidio, risvegliando la propria follia.
Come ricorda il cosceneggiatore Bernardino Zapponi, l’idea, per gli omicidi, fu quella di proporre sensazioni in cui lo spettatore potesse immedesimarsi, come l’ustione nell’acqua calda o lo sbattere contro uno spigolo, rispetto a un colpo di pistola, di cui pochi hanno fatto esperienza.

Molte sono le inquadrature successive di particolari, a partire dalle mani guantate del killer (che appartengono allo stesso Argento), agli occhi e alla bocca. Allo stesso modo si susseguono quelle di dettagli quali le biglie e le bambole, tutti oggetti che fanno riferimento al mondo infantile e che rimandano al concetto freudiano di perturbante.

L’ambientazione, benché narrativamente ancorata a Roma e dintorni, consiste in un collage di città: Torino, Roma e Perugia. In questa città immaginaria diverse ambientazioni esterne sembrano quadri dove le figure sullo sfondo sono spesso irrealisticamente immobili. Ed è proprio un dipinto che il Blue Bar vuole omaggiare, ricostruzione del celebre Nighthawks di Edward Hopper, emblema della solitudine, incarnata da Carlo, che proprio in quel locale suona tutte le sere.

I colori sono vividi, come un incubo a occhi aperti. Forte il contrasto tra il rosso saturo e brillante, protagonista indiscusso della pellicola sin dal titolo, e il blu, che caratterizza il vestito di Carlo, il neon del Blue Bar, alcuni quadri e la luce interna dell’appartamento della medium, il bagno della scrittrice Amanda Righetti, nonché la tappezzeria della casa d’infanzia di Carlo; non a caso in questi ultimi tre ambienti avverranno gli omicidi, facendo risaltare sul blu e sull’azzurro il rosso del sangue e delle ustioni. Di rosso e blu è infiammato anche il volto di Gianna, quando parla con Marc all’esterno della villa incendiata.
Nelle abitazioni delle vittime l’illuminazione proviene dall’alto, dando origine a ombre nette e spesso accentuate, che enfatizzano la drammaticità del momento.

Il lungometraggio è ricco di efficaci soggettive, che rendono lo spettatore partecipe in prima persona, come fosse presente all’interno delle scene; il più delle volte invisibile agli altri personaggi, in alcuni momenti notato da essi. È il caso del nostro ingresso al convegno di parapsicologia, in cui veniamo accolti dallo sguardo di uno steward e ci viene aperta la tenda. In casa della Righetti produciamo un rumore che porta la governante a guardare nella nostra direzione, dritto in camera, così come all’interno della villa abbandonata ci fermiamo un po’ di più di Marc a guardare il disegno sulla parete, mentre questi se ne va.

Profondo Rosso è un film che non sazia mai lo spettatore, a partire dalla varietà delle inquadrature e dei punti di vista, ricco di tutti gli elementi che portano un lungometraggio a superare la prova del tempo e la propria epoca senza essere superato, e a trascendere il genere di appartenenza, nel quale spesso un film viene relegato.

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