Daunbailò

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It’s a sad and beautiful world quello rappresentato e prediletto dal regista indipendente americano Jim Jarmusch. Un’America meno spettacolare di quella che Hollywood ci ha abituati ad ammirare, tanto che la sua filmografia è spesso frettolosamente liquidata da molti, specialmente in patria, come insignificante e priva di contenuti. Ma è solo apparenza. E non possono passare inosservati gli interpreti da lui portati sullo schermo – innegabile motivo per cui mi sono avvicinata al suo cinema, fino a rimanerne completamente affascinata – in particolare nelle sue prime pellicole, dove figurano diversi musicisti, in quanto era lui stesso legato al mondo musicale.

In Daunbailò (1986), infatti, tra i protagonisti troviamo Tom Waits e John Lurie, anche autori della colonna sonora, affiancati da una presenza a noi tanto familiare quanto insolita in questo contesto, ovvero Roberto Benigni, alla sua prima apparizione oltreoceano. Già il titolo, restituzione della pronuncia italiana dell’originale Down by law, ci avvicina al personaggio di Roberto (Bob), che è Benigni allo stato puro, più che l’interpretazione di una parte, Benigni allo stato puro: un italiano con qualche difficoltà nell’esprimersi in inglese – assolutamente non doppiato – più che mai fuori posto nel mondo, come del resto i due autoctoni, si fa per dire. Di qui riesce facile prevedere la comicità di molte scene, come del resto la trama alquanto lineare e lapalissiana del film: Zack (Waits), un DJ alcolizzato con l’arte di farsi licenziare, e Jack (Lurie), un magnaccia sprovveduto, vengono facilmente arrestati e finiscono col condividere la cella con Bob che, apparentemente innocente al contrario di questi, ha ucciso un uomo. Proprio Bob riuscirà a organizzare la fuga, vivendo l’evasione all’americana sognata sul grande schermo. Il paradosso sta nell’uscire da una prigione evidente per finire in un’altra, più subdola, che si trova al di là delle sbarre, rappresentata metaforicamente dal bayou, la zona paludosa che caratterizza il delta del Mississippi in Louisiana, dove il film è ambientato. Non a caso, quando nella loro fuga decidono di riposarsi all’interno di una casetta abbandonata, Jack non può che constatare la sua somiglianza con la loro cella: this is little too familiar. Più che fuorilegge, i tre protagonisti rappresentano, per la società americana, degli scarti: un alcolizzato e disoccupato che vive alla giornata, uno che, al contrario, sogna e progetta il futuro perché il presente riesce solo a incasinarlo, e un immigrato non integrato. Alle figure femminili il compito di restituire lo sguardo disincantato verso questa società del paradosso: Jarmusch affida proprio alle parole di una delle donne di Jack la sua analisi critica del termine melting pot, con cui gli USA da sempre, orgogliosamente, si definiscono: My mama used to say that America is a big melting pot. Because, she used to say, when you bring it to a boil all the scum rises to the top[1].

È proprio Bob, ovvero il diverso, a mediare il rapporto conflittuale e a fungere da collante tra i due americani Jack e Zack, dai nomi volutamente assonanti, ennesimo pretesto per ridere del suo confonderli, così come nell’esilarante gag in cui Roberto dirige l’estemporaneo coro carcerario intonando I scream, you scream, we all scream for ice cream. L’entrata in scena di Benigni trasforma un dramma apatico in tragicommedia, portandosi dietro la sua caratteristica aura fiabesca e contribuendo al surrealismo dell’opera. Bob incarna lo straniero, generando ilarità nel suo non padroneggiare la lingua locale, per cui confonde un insulto con un apprezzamento, cadendo facile preda dei due americani, ma dove l’elemento di più sottile comicità sta nel fatto che lo stesso Jack di cognome fa Romano. Con sé porta dietro tutti gli stereotipi tipici dell’italiano: il forte accento inconfondibile anche parlando inglese, la loquacità, il non essere molto alto, la sua indole truffaldina e la passione per la buona cucina; memorabile il soliloquio mentre arrostisce un coniglio appena cacciato, seguendo la ricetta insegnatagli dalla madre Isolina e raccontando del legame con la sua famiglia: il babbo Gigi e le sorelle Bruna, Albertina e Anna, ovvero la vera famiglia Benigni. Allo stesso modo la donna di cui si invaghisce nel film è proprio la protagonista della sua imperitura favola d’amore, fuori e dentro lo schermo, ovvero Nicoletta Braschi.

Un elemento straniante della pellicola è il conflitto che intercorre tra la drammaticità dell’immagine e la pacatezza della storia così com’è narrata. In molte scene, infatti, c’è una grande tensione visiva, generata dai forti contrasti, complice il bianco e nero, e dalle esagerate ombre portate, elementi tipici del thriller, che non trovano assolutamente riscontro nell’atmosfera pacata più generale. Alla fotografia troviamo l’inconfondibile e geniale sguardo di Robby Müller, già consacrato da un lungo sodalizio artistico con Wim Wenders, con cui tra l’altro Jarmusch condivide una poetica simile (non a caso fu suo assistente).

Significative le carrellate iniziali e, in generale, le scene ambientate nella città di New Orleans, che rievocano, come gli altri film curati da Müller, un paesaggio urbano desolato e malinconico, dove molto spesso l’uomo è assente ma la traccia del suo passaggio, al contrario, è tangibile. Tale sguardo sicuramente risente dell’influenza dei fotografi della New Topographic, la mostra del ’75 sottotitolata Photographs of a man-altered landscape, e rivoluzionò il modo di osservare il mondo, volgendo l’obiettivo verso quel paesaggio irrimediabilmente antropizzato, fino ad allora considerato soggetto indegno.

Infine il riferimento a due poeti americani, che il “nostro” Benigni non manca di recitare con la sua incantevole maestria, Walt Whitman e Robert Frost. Del secondo: “Due strade divergevano in un bosco, e io – io ho preso quella meno battuta, e da qui tutta la differenza è venuta”, immagine rievocata nel finale aperto in cui le strade di Jack, Zack e Bob tornano a dividersi; ci sarà una redenzione o riabbracceranno le loro vite precedenti? Non è dato sapere, ma forse l’importante è che di queste strade marginali si sia raccontato.


[1] “Mia madre diceva sempre che l’America è un grande melting pentolone. Perché, diceva lei, quando la porti a ebollizione tutta la feccia sale in cima”.

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