Bellissima

In una Roma che si sta risvegliando dal dopoguerra, la popolana Maddalena Cecconi (Anna Magnani) immagina per la figlia Maria un futuro migliore nel mondo di Cinecittà, arrivando a indebitarsi e facendo compromessi con se stessa per poterlo vedere realizzato; ma dovrà fare i conti con la realtà cinica e immorale della fabbrica dei sogni.
Maria non è una bella bambina, non è nata con un talento particolare e non è neppure aggraziata: è una tra le tante che sembrano avere un futuro già deciso, senza fronzoli e glorie. È però una bambina ancora avvolta da quell’innocenza che tutti pare abbiano perso, lanciata in un mondo che non è ancora pronta ad affrontare, un mondo che non si fa scrupoli neanche davanti a chi non può difendersi. D’altronde Cinecittà è come i suoi film: luccicante e illusoria, regala l’idea di una rivalsa, di un riconoscimento ma, soprattutto, una speranza.

Il film di questo è impregnato: la speranza di un futuro migliore, un cambiamento bramato che è parabola della vita stessa. Siamo in un’Italia che sta cambiando, che si lascia alle spalle la brutalità della guerra e vuole fiorire di nuovi ideali, ritrovare una bellezza perduta. Ma l’una non esclude l’altra, è un connubio inscindibile: non ci può essere bellezza se non c’è bruttezza. Nella pellicola questa dicotomia è ben resa dalla regia di Visconti attraverso una serie di contrapposizioni: la miseria della vita popolare e le luci di scena, la mediocrità delle donne consumate e la consacrazione del successo, un destino ineluttabile e lo spalancarsi di infinite possibilità.
Che bellezza ci può essere, però, in un mondo che davanti a un’occasione sceglie di non coglierla, che davanti a un germoglio decide di calpestarlo? Che cosa può nascere da un terreno così arido, su cui si fantastica possa germogliare una nuova identità?
Maria è l’ingenuità schernita, la speranza che viene derisa, umiliata e privata del suo potenziale; e non può trovare spazio in un mondo che si presenta brillante come le paillettes ma che avanza nella direzione opposta, deciso a imporre la crudeltà anche davanti all’innocenza.

In questo film Anna Magnani (Maddalena) riesce a dar prova di una delle sue migliori interpretazioni, premiata con il Nastro d’argento, contribuendo a fare di questa pellicola una vera e propria pietra miliare. La sua recitazione è un continuo oscillare di emozioni (ben catturate anche attraverso i numerosi primi piani) verso cui centripetamente siamo risucchiati e, come solo lei è in grado di fare, riesce a trasferircele in modo naturale ed empatico. Ci accompagna nella realtà rappresentata con i suoi occhi pieni di malinconia, che riesce a mascherare con il suo temperamento unico.[1]

Si ride, si piange e, soprattutto, ci si arrabbia guardando questo film che, pur sembrando così lontano nel tempo, dà prova di essere molto più attuale di quanto si possa pensare. Il tutto ci porta a un inevitabile confronto sul nostro mondo: quanto a volte possa essere crudo e meschino. E ci impone una riflessione: di tanto in tanto, il bisogno di cambiare direzione ai nostri passi non è sinonimo di una sconfitta, ma di una crescita.


[1] Sicuramente parte del merito va anche alla straordinaria sceneggiatura, scritta – su soggetto di Cesare Zavattini – dal regista insieme a Francesco Rosi e a Suso Cecchi d’Amico (ndD).

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