Steely Dan – Aja

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Mi piace definire Aja una grandiosa opera cinematografica. Due fini registi a capo delle riprese: Walter Becker e Donald Fagen. Sulla scena, un cast stellare: Wayne Shorter, Larry Carlton, Steve Gadd, Chuck Rainey, solo per citarne quattro. In totale, i musicisti sono circa quaranta! E, ancora, le apparecchiature: lo stato dell’arte della tecnologia per una squadra di tecnici da premio Oscar. Il risultato è un film – pardon, un album – di sette brani sublimi.

Black cow si affaccia in punta di piedi, spinta nel ritornello dal coro compatto di Clydie King, Vanetta Fields, Sherlie Matthews e Rebecca Louis. Segue il brano che intitola l’album, Aja. Nell’aria fluttuano le note di un’orchestra: Michael Omartian e Joe Sample al piano, Becker alla chitarra, le lunghe note di Rainey al basso e il colore dei piatti di Gadd.
Insieme creano morbide forme geometriche, animate da una brezza gentile sullo sfondo ceruleo del cielo. La dinamica esplode con l’assolo di batteria di Gadd e le note profonde di Shorter al sax. I rintocchi taglienti del pianoforte scandiscono il ritmo di un obbligato. Il brano prosegue, avvolto da nuovi suoni sintetici, per poi svanire in un lento fade-out, come il fragore di un treno che si allontana nel viola di un paesaggio d’autunno.

Deacon blues racconta di un alcolizzato morto in un incidente d’auto. Il ritornello, così elegante, sembra volerne riscattare la memoria. Pete Christlieb al sax tenore aggiunge un velo di malinconia alle parti solistiche. Deacon è un tipo blues, come Peg. Lei però è brava a fingersi funk nella strofa e dance nel ritornello, esaltato dai cori celestiali di Michael McDonald e Paul Griffin.
A questo punto ci aspetteremmo un brano distensivo, e per un attimo Home at last sembra esserlo. Tre robuste note di basso e batteria all’unisono (Rainey e Bernard Purdie) assicurano che non è così. Purdie conduce tutti dentro uno shuffle stretto e nervoso, che è il suo marchio di fabbrica; l’armonia acida dei sax crea tensione.
Lo special al terzo minuto ha al centro il suono sgraziato di un sintetizzatore, sullo sfondo un’esecuzione da orchestra swing tradizionale. Proprio quando non si sa più cosa aspettarsi, il brano ritorna alla strofa, su cui Becker disegna un assolo di chitarra. Could it be that I have found my home at last, canta Fagen. Becker ricama l’outro con una chitarra di velluto. Il protagonista di questo brano, una sorta di Ulisse moderno, è finalmente giunto a casa.

All’improvviso comincia I got the news. Infastidisce, tanto è frenetica. Gli strumenti suonano ritmi sincopati, spesso sovrapponendosi; è un gioco di incastri. Nella seconda parte del brano affiora qualche intermezzo dance. A chiudere il disco è Josie. Quasi a voler riassumere la versatilità dell’album, una chitarra elettrica esordisce in arpeggio, ammiccando al rock. La strofa invece è un groove r’n’b di una battuta, ripetuto in loop. Il jazz riecheggia nell’arioso ritornello.

Opera di estrema bellezza, frutto dello studio spasmodico e dell’illuminante naturalezza insieme, Aja si inserisce tra quelle cose della vita per cui la parola è insufficiente a restituire senso. Più ci si prova, più ci si perde. Album straordinario. No, di più: ritratto sonoro della vita. No, non proprio. Ci sono: grandiosa opera cinematografica! Ed eccoci punto a capo.

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Giuseppe Mele, classe 1989, nasce e cresce a Milano. Ha vissuto per alcuni periodi in Regno Unito e in Australia. Ha suonato, inciso un disco e girato videoclip musicali in qualità di batterista e corista. Ha lavorato anche come cuoco, addetto stampa, organizzatore di eventi, fattorino, intervistatore telefonico, insegnante di batteria e cameriere. È laureato in Comunicazione e Società presso l’Università degli Studi di Milano. Come potrete immaginare, quindi, è appassionato di musica, media, vino, global politics, viaggi, cinema, culture, Sydney, arte, Alberto Sordi, e via dicendo.

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