Marillion – Misplaced Childhood

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“L’uomo nello specchio ha occhi tristi”

Siamo alla metà del 1985 quando l’Europa si accorge definitivamente di un gruppo britannico fino ad allora noto soprattutto nella scena neo-progressive inglese, con qualche sporadica apparizione in Nord Europa; i Marillion (nati Silmarillion) hanno all’attivo due album di discreto successo per il genere musicale, un manipolo di fedelissimi che ne seguono le performance dal vivo, caratterizzate dalla presenza scenica dell’istrionico e gigantesco Fish, cantante scozzese del gruppo, ma sono ancora considerati dalla critica e dal grande pubblico nient’altro che una copia sbiadita e poco significativa dei Genesis.

Misplaced Childhood nasce durante un “viaggio” con l’LSD nel quale Fish immagina la storia e le parole di quello che sarà il primo concept album della band, capace di affermarsi nel momento in cui imperversano il pop e la new wave (Duran Duran e Spandau Ballett vanno per la maggiore) con due singoli che rappresentano ancora oggi due dei maggiori successi commerciali in ambito progressive, Kayleigh e Lavender.

L’album completa una trilogia insieme ai due dischi precedenti, Script for a jester’s tear (1983) e Fugazi (1984), con i quali condivide il suono corposo tipico del rock sinfonico e del prog, testi complessi colmi di significato e prestazioni canore camaleontiche e di altissimo livello di Fish. Anche a livello grafico i tre album sono legati fra loro: copertine ricche di dettagli e rimandi, con il giullare, onnipresente anche negli spettacoli dal vivo, che però questa volta saluta uscendo da una finestra (sul retro di copertina) per non presentarsi mai più nella storia della band.

Il disco nasce come due lunghe suites che, per motivi legati a decisioni della casa discografica, sono state poi frammentate in dieci tracce comunque unite, nei due lati del disco, senza soluzione di continuità; continuità non solo musicale ma anche lirica, come dev’essere un vero e proprio concept album.
I testi parlano di amore, di amicizie, di delusioni, di alienazione (che verrà approfondita nell’album successivo), di scorribande, il tutto visto con gli occhi dell’infanzia che svanisce, ma sono anche ricchi di doppi sensi e di frasi enigmatiche: mai come in questo caso si consiglia di avere sottomano il libretto dei testi mentre si ascolta.
La musica è invece una perfetta commistione fra le classiche atmosfere progressive e quella vena più pop che ha permesso all’album di sfondare nelle classifiche. Ci accoglie con un suono avvolgente di tastiere e un’atmosfera cupa, rimarcata dal tono del cantato, catapultandoci nei sogni malinconici del protagonista. Le tastiere sono lo strumento dominante nell’intero album, e creano un tappeto sonoro solidamente sostenuto dalla sezione ritmica, sul cui si incastrano parti di chitarra più calibrate rispetto ai lavori precedenti e l’impeccabile cantato.

Nella prima facciata spiccano i due singoli, Kaylegh e Lavender, i due pezzi meno prog dell’album: due vere e proprie ballate pop (i classici “meno di tre minuti” per le radio) pur se con inserti musicali sinfonici; Kaylegh, soprattutto, è un singolo che ha avuto grandissima diffusione per anni, e ancora oggi non è difficile captarlo su qualche emittente radiofonica.
Subito dopo le due ballate, il tono si incupisce e si fa più prog con la prima mini-suite Bitter Suite, un po’ parlata e un po’ cantata, che riprende il filo col primo pezzo, Pseudo Silk kimono, pur collegandosi melodicamente, in alcuni punti, con la precedente Lavender; gran pezzo, da ascoltarsi in tutte le sue cinque parti.
Il lato A si conclude con Heart of Lothian, a sua volta divisa in due parti, brano che parla dell’orgoglio scozzese di Fish (e anche della sua passione calcistica) e che ci saluta con l’enigmatica frase L’uomo nello specchio ha occhi tristi.

La seconda facciata si apre con due brani molto ritmati che staccano dall’atmosfera della prima parte per poi lasciare spazio ai tre migliori episodi dell’album: la stupenda mini-suite Blind Curve, carica di sonorità che rimandano ai Pink Floyd e ai Genesis e sicuramente un pezzo-manifesto del neo-progressive, seguita da Childhoods end?, brano che si incarica di portare a conclusione il tema del concept.
Il disco si conclude con White Feather, canzone nella quale Fish può esternare con rabbia il suo antimilitarismo (la white feather veniva data a chi nell’esercito inglese era tacciato di codardia) e la sua critica alla società e ai politici che alimentano i conflitti. Non è un caso che, tornando a rileggere i testi dei brani precedenti, vi si possono trovare si potranno trovare ulteriori significati, anche sociali, com’è giusto che accada quando si è di fronte a un’opera artistica di alto livello. E Misplaced Childhood lo è di sicuro: non è azzardato definirlo uno dei dischi migliori e più importanti del suo decennio, non solo nell’ambito di musica progressive. Di sicuro, per i Marillion rappresenta ancora oggi, a trentacinque anni di distanza, il maggior successo e il disco per il quale vengono ricordati, benché molti, anche ottimi, ne abbiano prodotti in seguito. Ma dopo questo tutto cambia per loro: divengono sì molto più famosi e influenti, ma il giullare ormai se ne è andato e Fish farà a tempo a scrivere e pubblicare ancora un album col gruppo (Clutching at straws, 1987, quasi allo stesso livello di questo) prima di sbattere la porta e andarsene, in stile Roger Waters. Un grossa perdita per il gruppo ma anche per il cantante, che pur con album di buon livello non saprà replicare l’unicità di questo lavoro.

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