Il BritPop perduto degli Stone Roses

1
886

Nell’estate dei miei diciott’anni ero nel pieno di una personale e caotica ricerca di musica, e avevo da poco scoperto il mondo delle Rock Band di quella scena, sviluppatasi agli inizi degli anni Novanta, che viene denominata BritPop. Nel giro di pochi mesi coincidenze, esigenze e voglie si fecero dense e palpabili, tenendomi in continuo movimento.
Se non conoscevi almeno cinque canzoni degli Oasis provarci con una ragazza era praticamente impossibile. Un compagno di classe mi aveva masterizzato un cd dei Franz Ferdinand, Take me out. Guardando Trainspotting ho ascoltato per la prima volta i Pulp.
Avevo appena comprato un best of dei Blur, e nella futile sfida tra loro e gli Oasis decisi che da lì in avanti avrei preferito il gruppo di Albarn a quello dei fratelli Gallagher.

Un giorno, frugando tra i dischi di mio padre, di nascosto ho rubato un cd degli Smiths, uno degli Strokes e un altro di una band che non conoscevo, gli Stone Roses. Ci ho messo un po’ prima di sfregarlo sui jeans per spolverarlo e metterlo su in macchina, di sera, mentre tornavo stanco da un lavoro in un campeggio estivo.
Me lo ascoltai per un mese di fila. Solo lui. Solo in macchina. Solo per il tragitto di andata e ritorno dal lavoro. Niente radio, niente Strokes, Kevin Ayers, Rino Gaetano, Led Zeppelin, Pink Floyd. Niente, solo gli Stone Roses e il braccio fuori dal finestrino. 

Un disco pazzesco, ricco di paesaggi urbani e sfumature cosmiche, capace di farsi capire attraverso una precisa ricerca di un climax melodico che fin dalla prima canzone, I wanna be adored, ti doveva portare dalle stanze dell’inferno alle porte del paradiso, con I’am the resurrection. In mezzo c’era tutto quel che avrei voluto da undici tracce messe in fila.
C’erano la batteria e il basso prepotenti di She bangs the drums; c’era Waterfall con i suoi ritmi strani, per nulla pop ma eleganti come suoni di una canzone psichedelica, che sfumavano in cori armonizzati ricordando i Beatles e che poi ti ritrovavi al contrario, letteralmente al contrario, nella traccia successiva, Don’t stop.
Le voci intrecciate alla chitarra erano calamite per le orecchie e la sinergia tra l’ascolto e lo sviluppo dei pensieri era immensa, come un bagno di etere.
Bye bye badman dava la sensazione di essere su un prato verde con centinaia di persone nude a ballare contro la guerra. In Song for my la malinconia mi prendeva a schiaffi senza deridermi e mi guardava mentre fissavo il vuoto della mente che riempiva il cuore.

Decisi di informarmi meglio e andai a leggere qualcosa su di loro. I testi erano eccentrici, arroganti, sublimi. Volevo di più, e a malincuore capii che di più non c’era. Stavo ascoltando un capolavoro della musica. Un disco capace di anticipare la scena del pop rock britannico di almeno quattro o cinque anni.  Capace di essere moderno anche per un ragazzo di poco meno di vent’anni nei primi del duemila. Anche ora che il BritPop si è sgretolato nell’Indie diventando indecifrabile quanto, il più delle volte, patinato.

Le tracce sono continue prove di forza, come se gli Stone Roses dovessero fare a spallate e cazzotti con tutti gli appellativi che già gli davano e che gli avrebbero potuto dare. Con le voci di Elizabet my dear sono Simon & Garfunkel, in Made of stone sono gli Smiths, in This is the one sono i Primal Scream e ci rivedi pure i Rolling Stones, se ascolti bene. Ma tutto ciò arricchisce di parole solo le pagine di chi vuole assolutamente trovargli un’etichetta.
Forse, invece, il BritPop si dovrebbe chiamare StonePop perché, più che prendere, la band di Manchester ha dato: ha fatto partire un’onda nuova, un nuovo modo di fare musica, con una qualità, una cura, uno stile unici, non proprio riconducibili a quattro scapestrati che fino a qualche mese prima se ne andavano in giro ad imbrattare i muri delle case discografiche con le bombolette (la copertina è uno “schizzo” di vernice di Squire, la chitarra del gruppo). 

Gli Stone Roses (nel disco omonimo e, in studio, mai più) sono squisitamente rock. Spaccano. Accelerano. Rallentano. Rotolano. Si muovono nella mente e ti portano dove vogliono come in un viaggio in sella a una motocicletta che gira per la casa, tra il divano e la soffitta, tra i fornelli e le piantine sul terrazzo.

Non li ascoltavo da dieci anni, e quel cd non lo trovo più.
Li ho riascoltati per caso da una playlist di spotify e mi sono rimesso su l’intero album di debutto dell’89.
Credo proprio siano un’ottima meteora per sopravvivere alla quarantena, con il giusto mix di adrenalina britannica e brividi transfrontalieri.


Band:
Ian Brown – Voce
John Squire – Chitarra
Mani – Basso
Reni – Batteria, cori

Album Studio:
The Stone Roses – 1989 – Silvertone Records
Second Coming – 1994 – Geffen Records

SHARE
Articolo precedenteMichel Foucault
Articolo successivoL’epopea degli ultimi: intervista a Massimiliano Santarossa
Mattia Di Carlo (1987) è laureato in Scienze Politiche a Padova. Ha condotto il programma “On the road again” su Radio Sherwood. Dal 2018 collabora con la Webzone di Sherwood.it e scrive per GlobalProject.info. Sta realizzando una raccolta di poesie illustrate con la disegnatrice Chiara Marcantonio. Ha suonato nel gruppo folk BuenaMista e sta lavorando ad un progetto musicale, “canzoni da divano”, presso la Underdogs Records di Padova.

1 COMMENTI

  1. Un gran bell’articolo con meravigliose suggestioni. Grazie per questo viaggio personale e non nel britpop.
    Keep on rockin’ even if it’s not so free this world, now.

Rispondi a Genziana Cancella replica

Scrivi un commento
Per favore inserisci qui il tuo nome

inserisci CAPTCHA *