Black Sabbath – Paranoid

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With their diseases and orgasm drugs and their sexless parasite life forms – Heavy Metal People of Uranus wrapped in cool blue mist of vaporized bank notes – And the Insect People of Minraud with metal music.
William S. Burroghs – Nova Express – 1964

L’origine dell’Heavy Metal. Materia tanto controversa dalla critica quanto indiscutibile per i fan, la ricerca del tempo zero del metallo pesante è un viaggio che ci catapulta nei tardi Sixties. Anni di rottura sociale, culturale, politica. Anni che traghettano le macerie del Novecento verso il contemporaneo. Anni che musicalmente tracciano le coordinate di tutto ciò che la musica è e sarà.
Per l’intelligentia musicale, Heavy Metal è in primis il caos di Kick Out the Jams (MC5 – 1968), il disgusto strisciante di I Wanna Be your Dog (The Stooges – 1969), il muro acido su cui si schianta Summertime Blues (Blue Cheer – 1968), il delirio sonico del solo di Machine Gun (Hendrix – 1970) e ancora la chitarra di Pete Townshend lanciata contro un muro di amplificatori o le robuste traiettorie sexy dei Led Zeppelin. Tutto questo è e allo stesso tempo non è Heavy Metal.
Il metallo pesante, quello delle corna alzate al cielo, del nero dominante e dei granitici power chords, quello dei fan con le magliette sgualcite e i bracciali di borchie, nasce a Birmingham nel 1970 sulla scia di quella casualità che, quando incontra la storia, si fa leggenda.
Tony Iommi, un giovane e promettente chitarrista mancino, è al suo ultimo giorno di lavoro: ancora poche ore da passare a una pressa a pedale prima di mollare tutto e dedicarsi professionalmente alla musica. La band in cui suona, The Birds & The Bees, è stata scritturata per un tour europeo: l’occasione è perfetta per abbandonare i grigi ruderi delle Midlands. Ancora poche ore di lavoro, un paio di pinte al pub per salutare gli amici e poi solo il sogno di una nuova vita, appeso ad una sei-corde.
È bello pensare che se fosse andata così l’Heavy Metal non sarebbe mai esistito.
È bello pensare che sia una fortuna spappolarsi due falangi sotto una pressa l’ultimo giorno di lavoro prima di un tour europeo.
È bello pensare che la forza d’animo del giovane Tony Iommi abbia una valenza e un riverbero universali, non riguardando solo la sua vita, ma milioni di vite che nella sua futura musica troveranno un senso.
Tony Iommi, senza due falangi della mano destra, non si arrende all’evidenza, si inventa due ditali in cuoio come protesi, ritorna a macinare chilometri di manico in esercizi e diteggiature, capisce che non sarà più lo stesso chitarrista, che alcuni accordi sono diventati impossibili, che le corde sono troppo dure e dolorose. Inizia ad utilizzare accordi semplificati (power chords), rallenta l’esecuzione e si concentra sul timbro e sulla pesantezza del suono, cerca accordature alternative che permettano alle corde di essere più molli e quindi meno dolorose al tocco, in altre parole codifica un nuovo suono, un magma apocalittico e sinistro: l’Heavy Metal.
I suoi compagni di viaggio sono quanto di meglio il sottosuolo di Birmingham possa offrire: Geezer Butler (bassista stonato con il vizio delle liriche visionarie), Bill Ward (batterista dagli ascolti raffinati ma dal drumming grezzo e potente) e Ozzy Osbourne (un dislessico e pazzo non-cantante, un reietto con velleità artistiche il cui unico punto di forza stava nel possedere un impianto voci). Abbandonato per omonimia il nome originario Earth, la band fa proprio il titolo della pellicola I tre volti della paura di Mario Bava (nella traduzione inglese Black Sabbath) e inizia a riscuotere consensi grazie a un approccio più oscuro e viscerale rispetto ad altri rock-act del tempo come Deep Purple e Led Zeppelin. Dopo soli quattro mesi dall’uscita del primo omonimo album (che ottiene nell’immediato un discreto successo commerciale) il quartetto ritorna in studio e in cinque giorni di presa diretta confeziona il capolavoro di una carriera, la pietra miliare di un genere, il termine di paragone per chiunque voglia suonare pesante nei quarant’anni a venire: Paranoid.
L’alchimia strumentale dei Black Sabbath vive di una rara complementarietà chitarra-basso-batteria in cui è la sezione ritmica a sciorinare virtuosismi esecutivi e a muovere la tessitura compositiva, mentre la chitarra appoggia ritmiche di ordinata pesantezza e fughe solistiche acid blues. Le frequenze dei tre strumenti nello spettro sonoro globale della canzone sono molto ravvicinate, risuonano spesso insieme e contribuiscono a creare un muro magmatico senza eguali per quei tempi.
In un periodo in cui va definendosi la figura di guitar hero, l’essenzialità di Iommi ci regala virtuosismi compositivi ancor prima che esecutivi: il nostro cesella una dopo l’altra parti chitarristiche insuperate e insuperabili che lo elevano a riffmaster definitivo della chitarra moderna.
Paranoid si apre con War Pigs, una cavalcata di pieni e vuoti perfetta per la potenza vocale di Ozzy.
Pezzo dalle tematiche politiche le cui lyrics giocano abilmente sul parallelo tra male reale (la guerra) e metafisico, War Pigs avrebbe dovuto dare il titolo all’album, incontrando però la ferma opposizione della casa discografica (della querelle rimane traccia nell’artwork, raffigurante un guerriero con spada e scudo che emerge dall’oscurità).
La seguente Paranoid è probabilmente la composizione più famosa dell’intera carriera della band. Scelta come singolo nonostante fosse a tutti gli effetti un riempitivo (scritta in tre minuti su richiesta del produttore Rodger Bain che lamentava la necessità di un ulteriore brano breve), nei suoi due minuti e cinquantatre secondi Paranoid è l’ABC dell’ Heavy Metal song: riff semplice ma efficace, ritmiche serrate, stacchi all’unisono e potenza vocale a declamare. In soli due brani i Black Sabbath, oltre ad aver regalato al mondo due dei pezzi metal più importanti di sempre, hanno messo sul piatto un’elasticità compositiva da mostri sacri dimostrando di essere pienamente a proprio agio tanto con complessi incastri elettrici che sfiorano i dieci minuti, quanto con feroci schegge della durata di una pop song.
La successiva Planet Caravan continua a stupire, congelata in una sinistra psichedelia con il narrare acquatico di Ozzy e i rintocchi ritmici delle percussioni a navigare in un mare di suoni sorretti dal solido groove di Butler e da uno Iommi al limite del jazz. Il primo lato si chiude con Iron Man, il paradiso del riff e del Sabbath sound con le sue tessiture di pesantezza ritmica e la voce di Osbourne impegnata a contrappuntare la chitarra in quello stile trascinato che diventerà più di un marchio di fabbrica. Se i Black Sabbath volevano entrare nell’olimpo della musica popolare i solchi di questo lato di vinile bastano e avanzano a creare un immaginario indelebile.
La seconda parte del disco non raggiunge le vette delle prime quattro tracce, ma non delude e contribuisce, con una manciata di classici minori come Electric Funeral (con la cadenzata chitarra wha e i repentini cambi di direzione) o Fairies Wear Boots, alla definizione di un sound maturo e altamente riconoscibile dal pubblico.
Se relativizziamo il tempo e gli stili, il solco che Paranoid lascia con la sua rivoluzione sonica è paragonabile all’importanza di Bach o, per restare in ambiti più affini, dei Beatles.
I Black Sabbath sono il tempo zero di qualcosa che, visto quarant’anni più tardi, mantiene una freschezza e una contemporaneità proprie dei capolavori rivoluzionari.
Sono il fascino degli attimi irripetibili, dei bivi e delle traiettorie del caso.
Sono una storia che l’anagrafe ci fa vivere in differita, ma hanno le sembianze di un presente che non passa mai.

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Paolo “Blodio” Fappani: Milano 1973 Musicista e operatore culturale bresciano, dal 2001 è direttore artistico e co-direttore di produzione del festival musicale ARENASONICA. Dal 2009 è fondatore e membro del consiglio direttivo dell’ASSOCIAZIONE CULTURALE LATTERIA ARTIGIANALE MOLLOY. Negli ultimi vent’anni ha suonato centinaia di concerti e registrato dischi con diverse band e artisti bresciani (Cinemavolta, Paolo Cattaneo, Van Cleef Continental). Attualmente è in tour in Italia ed Europa con la sua band SEDDY MELLORY e con il promettente trio bresciano MARYDOLLS.

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