Tess Gallagher – Viole nere

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1918

Viole nere è una raccolta di sette racconti e quarantanove poesie.

È un libro che nasce su un albero pericoloso: il legame di parentela con Raymond Carver, da molti battezzato come maestro della nuova narrativa americana. Diventa difficile, se non impossibile, evitare confronti: Tess Gallagher, moglie di Carver fino alla morte dello scrittore, avvenuta nel 1988, è principalmente una poetessa. La sua produzione poetica è cospicua, a tratti estremamente profonda e ricca di immagini; sentire: è questo il verbo che più di ogni altra cosa prevale, leggendola.
Ma la vera prova che l’autrice non supera in questo libro sono i racconti.

I protagonisti di Tess sono quelli di Carver: uomini e donne ripresi nel loro quotidiano, legati a vite qualsiasi i cui frammenti vengono ritratti quando si affacciano su un baratro. L’abilità di Carver è sempre stata quella di non mostrare quasi mai la loro caduta, lasciandola all’intuizione del lettore; tutto il non detto riempie le pagine e trabocca dal foglio.
È soprattutto questo che Tess cerca di fare: non dire. E, purtroppo, ci riesce fin troppo bene, ancorando i propri racconti e senza riuscire a trasmetterli al cuore del lettore. Una volta giunti al termine dell’opera resta solo un vago senso di confusione, dovuto al tentativo di scavare una terra troppo dura.
Il suo stile è pietosamente impreciso. Le parole (l’unica cosa che abbiamo, diceva Carver) non sono selezionate. I suoi racconti avrebbero voluto un rastrellamento degli inutili. Tutto quello che di vero e onesto mostra, a tratti, nelle poesie, l’autrice non riesce a trasferirlo in prosa, sovraccaricandola di un tono che si avverte, chiaramente, estraneo.
L’ultimo racconto segna il crollo inesorabile della raccolta. Si tratta della correzione di un resoconto, come la narratrice afferma alla prima riga. Il resoconto, continua, è quello del signor Gallivan, mediocre scrittore in cerca di fama. Il resoconto è Cattedrale, uno dei racconti più famosi di Carver, un vero capolavoro.
È una prova in cui solo un suicida si sarebbe lanciato: qui, casomai ce ne fosse stato ancora bisogno, la distanza diventa siderale. Infatti, mentre Carver riesce in modo magistrale a dare una profondità commovente all’apparente superficie narrativa della visita di un cieco, Tess si impegna (con molta, quanto inutile, fatica) nella correzione degli errori del narratore-Carver, obbligandoci, quindi, al confronto. C’è qualcosa di eccessivamente frettoloso nella sua scrittura e alla fine viene divelto il tema centrale, quello morale. Il suo racconto resta privo di qualsiasi finale, dove non succede nulla e nessuno impara nulla.
Rimane l’impressione vaga che se Tess si fosse impegnata meno a imitare lo stile del marito, forse l’avremmo letta più volentieri.
E chiusa l’ultima pagina verrebbe voglia di dirle: provaci ancora, Tess.

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