Il romanzo si apre con una morte, quella della signorina Matilde Crescenzaghi fu Michele e Ada Pirelli, nubile, insegnante in una scuola serale, con una classe mista di ragazzi dai tredici ai vent’anni, la maggior parte dei quali provenienti da riformatori, o con padri alcolizzati e madri di malaffare. Non una morte per caso: un vero massacro, semmai. Ma si può massacrare una sola persona?
La risposta è affermativa, e la scena ce lo dimostra: umiliata, seviziata, stuprata, la giovane Matilde muore in seguito alla violenza estrema che le è stata perpetrata.
La scena del crimine è l’aula nella quale insegnava. I colpevoli li conosciamo fin da subito: i suoi undici allievi.
Le indagini toccano a Duca Lamberti, ex medico radiato dall’albo a causa di un’eutanasia e poliziotto-filosofo alla ricerca delle ragioni di una morte. Ad affiancarlo, come negli altri romanzi neri della serie, il fido Mascaranti, l’immancabile Livia, compagna e amica, e Càrrua, il suo superiore. Ma i colpevoli negano le proprie responsabilità: tutti a dire non sono stato io, io non ho fatto niente, non ho visto niente, non ho voluto vedere, non so chi degli altri sia stato. E, dietro i colpevoli, l’ombra di un possibile mandante, di un organizzatore segreto, di un istigatore che ha agito dall’ombra.
Un gioco perverso di vendetta e paura. Forse. E forse questo sospetto di Duca Lamberti è destinato a rimanere tale. Ma Duca non si dà per vinto. Nonostante un’altra morte venga a funestare la sua famiglia. Nonostante le difficoltà dell’indagine. Che è condotta da un essere umano, prima ancora che da un poliziotto. E che lo porterà a confrontarsi con un’umanità al limite. Perché i genitori hanno sempre un po’ di colpa se i figli sono dei criminali. Praticamente ne hanno un po’ meno, perché un uomo diviene criminale anche per colpa dell’ambiente, non lo è soltanto per costituzione ereditaria. Ma una cosa è certa: non esiste assolutamente il caso in cui il padre o la madre o tutti e due insieme non abbiano nessuna colpa di come cresce il figlio.
L’indagine sarà complicata anche dal fatto che in un interrogatorio, quello che perde regolarmente è l’interrogante, perché – a meno che non si adoperi la forza fisica – l’interrogato cammina placido sulle bugie e le invenzioni e la legge non può fargli nulla.
Scerbanenco imbastisce una storia cupissima di vite al margine, verrebbe da dire di ragazzi di vita di pasoliniana memoria, o di ragazzi fuori di più recente reminiscenza cinematografica, con uno stile agile, quasi colloquiale, immediato e d’impatto. Racconta una vicenda scabrosa, morbosa ma sempre con pudore, alludendo piuttosto che descrivere dettagliatamente, sottintendendo piuttosto che porre il lettore di fronte a immagini nitide e sconvolgenti. Del resto, ciò che ci porta a immaginare è sicuramente più efficace di qualsiasi rappresentazione esplicita.
Una visione pessimistica, quella dell’autore, che sembra immaginare ben poche speranze di redenzione e quasi nessuna di riscatto. A parte quella del suo protagonista, che si interroga, pur senza risposte, sul proprio desiderio di uccidere. Gli interrogativi rimangono, e una risposta ognuno di noi la può trovare soltanto dentro se stesso.
Uno dei romanzi più feroci di Scerbanenco, una perla rara nell’ambito della narrativa poliziesca italiana. Da leggere e da non dimenticare.