Manuel Vilas – In tutto c’è stata bellezza (Ordesa)

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L’editore Guanda porta in Italia un successo conclamato in Spagna, con più di dodici edizioni all’attivo: In tutto c’è stata bellezza di Manuel Vilas, poeta, scrittore, giornalista di origini aragonesi, nato nel 1962 a Barbastro, piccola cittadina della provincia di Huesca, Spagna.

Mi sono messo a scrivere, soltanto scrivendo potevo dare sfogo ai tanti messaggi oscuri che provenivano dai corpi umani, dalle strade, dalle città, dalla politica, dai mezzi di comunicazione, da ciò che siamo. In tutto c’è stata bellezza: si è colti dal desiderio di porre il titolo di questo romanzo di Manuel Vilas come una domanda all’autore e a se stessi. C’è da chiedersi: esattamente, in che cosa c’è stata bellezza? In tutto, niente escluso? Tutto può essere bellezza nella vita, così come la si ricorda? Anche se ci si ricorda della vita con tagliente nostalgia? La nostalgia particolarmente greve delle fotografie, ad esempio: quale tipo di bellezza c’è in quegli attimi strappati al tempo che ora, nel presente, riescono solo a struggerci e a dolerci, con l’evidenza dell’irrecuperabilità del tempo? L’evidenza della morte sopraggiunta nel frattempo. La morte dei cari. In tutto c’è stata bellezza! Anche in quello, anche nella perdita?
È quel “tutto”, la perentorietà di una generalizzazione così potente, quel “tutto” così onnicomprensivo a rappresentare, al massimo grado, il fascino e il fastidio di questo “maledetto e felicissimo” libro dal titolo rubato a una poesia mai scritta.
Anche i fatti terribili e terrificanti hanno avuto, e hanno ora nella memoria, la qualità di una “cosa” bella? Com’è possibile? C’è la speranza che sia davvero così: che la bellezza sia conservata in tutto ciò che abbiamo vissuto, in ogni singolo giorno, anche nei più sgradevoli, tediosi, disperati. Ma c’è quasi una sottile rabbia, un disgusto, perché lo sappiamo benissimo: non è così. Non in tutto c’è e c’è mai stata bellezza. Francamente, chi potrebbe mai essere così audace, così coraggioso da scorgere, voltandosi indietro lungo un cammino di sofferenza che ancora dura, il tratto dello splendore nel volto lugubre del lutto? Chi potrebbe essere così spavaldo e temerario da tracciare con un dito il contorno di una forma mancante, di un padre o di una madre defunti, di una moglie o di un marito divorziati e sentire la loro presenza, la loro vicinanza fantasmatica: avvertire il conforto, l’impalpabilità di un amore che non muore? È questa la bellezza? L’impalpabilità? La volontà e la capacità, la sensibilità di avvertire il conforto e la compagnia della Grande Cosa che non scompare pur perdendola nella quotidianità? Sto parlando di quegli esseri, dei fantasmi, dei morti, dei miei genitori morti, dell’amore che provavo per loro, del fatto che quell’amore non se ne va. Nessuno sa cos’è l’amore.

La potenza struggente, malinconica, simile all’abisso che ti guarda e ti chiama a un meraviglioso freddo precipitare, la potenza della parola di quest’opera meravigliosamente tradotta dallo scrittore Bruno Arpaia (al quale va riconosciuto il pieno merito di aver fatto decollare il romanzo in Italia: sua è l’eccellente intuizione di dare quel titolo all’edizione di casa nostra), interroga i lettori. Li attrae. Li seduce. E li respinge. In tutto c’è stata bellezza ha una voce suadente. Una voce pericolosa. È la voce di un personaggio, di un io verso il quale si prova partecipazione emotiva. Ma è una voce sprofondante, che determina nel lettore, a un certo punto, la volontà di fare un passo indietro; di affacciarsi sul baratro di una memoria e poi afferrarsi a qualcosa di solido per non cadervi dentro. È il fascino del linguaggio poetico e filosofico di Manuel Vilas, che attrae terribilmente. Ed è terribile essere attratti con una tale forza.

La scrittura di Vilas ha la qualità dell’indeterminatezza o, meglio, della non chiarezza logica; vale a dire, la frammentarietà dello sviluppo narrativo (che non c’è, appunto), la bellezza della nebbia. La penna dello spagnolo solleva sulla pagina una foschia meravigliosa, da paesaggio felliniano dell’amarcord. Una foschia mattiniera che avvolge il lettore nell’indistinzione delle circostanze, nella fumosità di certe massime sulla realtà, su che cosa essa dovrebbe essere e significare. E tuttavia, il lettore non perde mai il desiderio di proseguire, pur non immaginando che cosa vi sia poco oltre. Forse, proprio per questo procede. Seguendo l’onda emotiva di un linguaggio estremamente evocativo. Perché la trama romanzesca è un bisogno secondario e accessorio per un lettore che non abbia solo voglia di passare del tempo in poltrona.

Una trama qui non esiste. Non esiste prevedibilità dell’azione. Azione non c’è, in senso narrativo, né intreccio. La suspense è l’attesa della parola successiva, l’attesa della frase che rivela, che sorprende arrivando anche un po’ inaspettata e acausale: in tutto c’è stata bellezza è la chiosa di una pagina dimessa, la constatazione di un uomo che ha appena finito di ricordare, senza gioia. Lampeggia, infine, una luce.

La lingua di Vilas è libera ed è più poetica che narrativa. Definire “romanzo” quest’opera letteraria (che, infatti, si conclude con un lungo epilogo in versi) potrebbe essere riduttivo: è una letteratura della memoria, piuttosto; di un’identità scrivente che ha molto della biografia dell’autore. Certamente, c’è un dato autobiografico rilevante. C’è Vilas con tutto il suo corpo e la sua famiglia. Tanto da far percepire il libro come un vero e proprio diario intimo che il lettore ha il privilegio e quasi l’imbarazzo di sbirciare appassionatamente. Il diario senza riferimenti temporali di un personaggio, di una mente in libero volo sulle terre straniere del passato, da conoscere e riconoscere come proprie, come terre della propria natalità nazionale, dell’amata Spagna, di Madrid e dell’Aragona, della propria appartenenza. Un io narrante che ricapitola e appunta la vita. Una narrazione autentica; nessun artificio; nessun trucco; tranne che nei nomi: figli, moglie, genitori, parenti tutti, sulla pagina prendono il nome di un musicista, da Vivaldi a Rachmaninov. Tutti nomi di fantasia che non mascherano un’identità, ma rivelano la passione musicale dell’io narrante. Nomi trasposti, tranne quello della città di Ordesa, che dà il titolo all’edizione originale. Che cos’è Ordesa? Perché questa importanza? È semplicemente il nome del parco nazionale del Monte Perdido, nei Pirenei, simbolo di qualcosa, nell’opera di Vilas. Qualcosa che sta tra le pagine, sfuggente. Una sensazione. Una vaghezza, un rimando a un significato da elaborare, da estrarre nella miniera ricca e, spesso, sovrabbondante di parole. Ordesa è una memoria felice nell’album di famiglia. La nostra. Ho pensato che lo stato del mio animo era un vago ricordo di qualcosa che era accaduto in un luogo del nord della spagna chiamato Ordesa, un luogo pieno di montagne, ed era un ricordo giallo, il colore giallo invadeva il nome Ordesa e dietro Ordesa si disegnava la figura di mio padre…

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