Edith Wharton – L’età dell’innocenza

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L’età perduta

New York, 1870: Newland Archer, ricco rampollo del bel mondo, fra una prima a teatro e una cena, s’innamora di una cugina della fidanzata May, la contessa Ellen Olenska, tornata all’ovile dopo aver lasciato il perverso conte suo marito – immaginare in che cosa consista la perversione della decadente nobiltà europea agli occhi della puritana America è un esercizio di fantasia lasciato al lettore.
Se Ellen, donna chiacchierata, riesce a farsi accettare dalla buona società, dopo aver scontato la prevedibile diffidenza iniziale, lo deve ai consigli e alla protezione di Archer. Quando però l’amore da lui provato diventa palese a tutti prima che a lui stesso, il matrimonio con la bella, mansueta e scialba May (ma quanto è perfida quest’acqua cheta!) s’impone quasi per una beffa del destino. Tutto alla fine congiura per riportare le cose nell’alveo dell’ordine costituito: i benpensanti espellono, seppur con una sontuosa (e ipocrita) festa d’addio, l’intrusa.

Newland spicca per tormenti interiori e virtù morali fra i virgulti della ricca borghesia fatti con lo stampino, ma si deve adattare a invecchiare in rapporti umani vuoti, convenzionali e nella sapienza mondana, capaci di triturare anche l’anima più coraggiosa. Conserva tuttavia puro per sempre il proprio amore, vissuto nell’età dell’innocenza, che gli ha consentito per brevissimo tempo di essere se stesso e di vedersi in modo nitido, in una sorta di pienezza che a noi può sembrare poca cosa, ma che è invece tutto.

Che cosa c’è di più sdolcinato e banale, trito e ritrito, di un amore nato in tempi e luoghi inopportuni cui le ipocrite convenzioni sociali e la rettitudine dei protagonisti tarpano irrimediabilmente le ali?  Che cosa c’è di più datato del “vorrei, ma non posso”? Eppure questo romanzo lascia un’impressione indelebile, come una musica fine che entra nell’anima.
Ragione e sentimento, sensualità repressa eppure sempre presente, onore, rinuncia, ma anche un affresco sociale indimenticabile: l’opera è tutto questo e molto di più. È allo stesso tempo un romanzo di formazione e un potente spaccato, un caleidoscopio, dei più autentici moti dell’anima, scandagliati e indagati in ogni più intima fibra.
Insomma, qui di trito e ritrito non c’è proprio un bel niente. Piuttosto emerge uno scatto, un fotogramma sospeso di eternità.

Un’opera perfetta.

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Giorgia Boragini è nata a Bologna qualche decennio fa. Vive e lavora in quel di Brescia. Laureata in Giurisprudenza per necessità, accanita lettrice per passione, ama osservare il mondo per trarne talvolta qualche storia. Frequenta con impegno discontinuo laboratori di scrittura creativa. Il suo primo romanzo, "Il copione del delitto" (Liberedizioni, 2013), si è aggiudicato, da inedito, il secondo posto al concorso Manerba in Giallo, edizione 2011. Nel 2017 è stata pubblicata la sua raccolta di racconti "Tipi da Bar" (Prospero Editore). Con "Mai rovinare il pranzo di Ferragosto!" (Liberedizioni, 2019) è tornata a cimentarsi con il genere giallo.

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