E’ facile, per chi si accosta oggi a Roma città aperta, scivolare nei territori del già detto. A oltre sessant’anni dalla sua realizzazione, dopo che legioni di critici si sono esercitate su di essa, dopo miriadi di citazioni e di omaggi inseriti dai registi nelle loro pellicole, dopo l’infinità di episodi, noti a tutti i cinefili, sulle difficoltà di lavorazione a guerra appena conclusa, intorno all’opera di Rossellini si è infatti accumulata una serie di luoghi comuni tale da ostacolarne, talvolta, la piena comprensione.
A noi poco importa ripetere l’eterna canzone del primo capolavoro del Neorealismo italiano (storia peraltro non del tutto vera, dal momento che, secondo alcuni, questo titolo spetterebbe a Ossessione di Luchino Visconti, realizzato due anni prima). Neppure ci interessa mettere ancora una volta in rilievo la grammatica innovativa del film, il suo stile documentaristico mirabilmente grezzo, l’illuminazione naturale, gli attori presi dalla strada, e i set improvvisati al quartiere Prenestino. Né intendiamo sottolineare l’abilità di un regista che, in quei tempi difficili, riuscì a coagulare intorno a sé un gruppo di persone (fra le quali Federico Fellini, allora venticinquenne) che, in pochi anni, avrebbe fatto la grandezza del cinema italiano. Di Roma città aperta ci preme cogliere, piuttosto che la mitologia, la moralità e l’attualità dei valori che lo rendono capace di riverberare il suo insegnamento sulla realtà italiana contemporanea.
Ambientata fra il 1943 e il 1944, nei mesi dell’occupazione tedesca della Capitale, la vicenda narrata in Roma città aperta è ben nota: si racconta del sacrificio di due uomini della Resistenza romana, Don Pietro, un sacerdote condannato alla fucilazione per aver aiutato e protetto i partigiani, e Manfredi, un militante comunista che tenta invano di sottrarsi alla caccia dei tedeschi, e muore senza confessare dopo essere stato bestialmente torturato dalle SS. Intorno e con loro vive, soffre e, a suo modo, prende coscienza e combatte il popolo minuto di Roma, personaggio corale forse ancora più importante dei due protagonisti, fra cui spiccano le figure della vedova Pina, anche lei destinata a morire durante un rastrellamento, del tipografo Francesco, e dei tanti bambini del quartiere.
La visione del film è da raccomandare caldamente a tutti. Quasi a sfatare la vulgata neorealista, che descrive tutto quel cinema come poco curato e fatto di corsa, Roma città aperta appare sorretto da una sceneggiatura robusta e insieme calibratissima, che dosa fluidamente tragico e grottesco, senza rinunciare a qualche tocco di umorismo. Gli interpreti sono eccellenti, soprattutto Fabrizi e la Magnani che, contrariamente al mito dell’attore non professionista, erano già a quel tempo notissimi agli spettatori. A una visione distanziata, qualche squilibrio si può cogliere nella descrizione unilaterale dei militari tedeschi, ferocissimi e pieni di cinismo, e dei collaborazionisti italiani (dal commissario fascista untuoso e servile a Marina, l’ex-amante di Manfredi, succube degli occupanti e da loro resa schiava della droga). Ma, a ben vedere, anche questi manierismi si giustificano se collochiamo il film nella sua corretta prospettiva storica.
Piuttosto, ciò che ancor oggi colpisce di quest’opera e che, al di là di ogni luogo comune, davvero costituisce il nocciolo autentico del Neorealismo, è la precisa volontà di non tacere, l’urgenza di dire, e di dire onestamente la verità, anche la più scomoda e imbarazzante, sullo stato dell’Italia e degli italiani che uscivano prostrati da una guerra rovinosa. Invece di dedicarsi a opere consolatorie e rasserenanti, e di prestare orecchio agli autorevoli inviti della politica a non mostrare al mondo le brutture del Paese, i migliori cineasti italiani del secondo dopoguerra decisero di rivolgersi con attenzione e sincerità al mondo degli umili, tentando di cogliere, in quelle storie semplici, le cause della rovina del presente e la speranza di una rinascita nel futuro.
Questa ispirazione di fondo, comune a tutto il movimento neorealista, nel film è espressa da Rossellini secondo il proprio umanesimo e la propria personale moralità. Insistendo innanzitutto sulla responsabilità individuale della situazione presente, sulla colpa di chi, per leggerezza o per quieto vivere, non ha saputo prendere posizione e si è condannato da se stesso alla rovina.
A Pina che lamenta la cecità di Dio verso gli uomini disfatti dalla guerra, Don Pietro – e con lui Rossellini – rispondono: «Cristo non ci vede? Ma siamo sicuri di non averlo meritato questo flagello? Siamo sicuri di aver sempre vissuto secondo le leggi del Signore? E nessuno pensa di cambiar vita, di ravvedersi! Poi, quando i nodi arrivano al pettine, tutti si disperano e si domandano: ma non ci vede il Signore? Non ha pietà di noi, il Signore? Sì, il Signore avrà pietà di noi, ma abbiamo tanto da farci perdonare».
Tuttavia, una volta che la scelta è stata compiuta, quando tutto il popolo di Roma si è silenziosamente schierato contro l’occupante per riconquistare la libertà, allora, suggerisce Rossellini, la paura si dissolve e l’animo può aprirsi alla speranza: «Finirà, Pina. Finirà», dice Francesco. «…Bisogna crederlo. Bisogna volerlo… Non dobbiamo aver paura né oggi né in avvenire. Perché siamo nel giusto, nella via giusta… Noi lottiamo per una cosa che deve venire, che non può non venire. Forse la strada sarà un po’ lunga e difficile ma arriveremo, e lo vedremo un mondo migliore».
È appunto nel segno della speranza che Roma città aperta termina, nonostante la morte dei tre personaggi positivi. È questo il senso della celebre sequenza conclusiva, giocata fra simboli sacri e profani, ove i bambini del quartiere, dopo aver assistito alla fucilazione di Don Pietro, scendono da Monte Mario verso una Roma illuminata dal sole nascente, sulla quale si staglia gigantesca la cupola di San Pietro. C’è tristezza sui loro volti, ma anche una nuova consapevolezza: attraverso di loro Rossellini sembra dirci che qualcosa sta cambiando, e che l’esempio di chi non ha avuto paura di scegliere sarà presto raccolto dalle generazioni future.