Nella valle di Elah

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Hank Deerfield, ex ufficiale della polizia militare statunitense, riceve la notizia che il figlio Mike, volontario in una compagnia di marines appena tornata dall’Iraq, risulta assente all’appello da due giorni. Senza indugi l’anziano genitore raggiunge la base militare dove alloggiava il figlio e incomincia a indagare per proprio conto (poiché la polizia, nella persona della detective Emily Sanders, che segue il caso di sparizione, non sembra occuparsene granché) e scopre che il figlio non era affatto quell’insieme di specchiate virtù che si poteva aspettare, implicato com’era in squallide storie di droga e prostituzione.

Quando si scoprono i resti del ragazzo fatti a pezzi e bruciati in un campo adiacente alla base, sembra chiaro che i responsabili dell’omicidio siano alcuni commilitoni che hanno trascorso l’ultima sera con Mike: l’indagine si fa più serrata, con l’aiuto, ora risoluto, della detective Sanders, e gli autori del delitto vengono scoperti; ma insieme ad essi, Hank scopre un mondo fatto di crudeltà e sadismo, disillusione e omertà, e può dare un significato agli appelli disperati che il figlio gli lanciava telefonicamente dall’Iraq o alle strane fotografie che gli inviava via e-mail.

Paul Haggis confeziona una pellicola che rinnova i fasti dell’Oscar di Crash (sua precedente regia del 2004) e delle sceneggiature pluripremiate degli eastwoodiani Million dollar baby e Flags of our fathers. Prendendo spunto da un fatto di cronaca in cui si è imbattuto per caso leggendo un quotidiano, Haggis ci parla non solo e non semplicemente delle assurdità della guerra irachena, mantenendo con intelligenza sullo sfondo il deflagrare della follia individuale nelle violenze del conflitto (e, quindi, non dovendo pagare alcun debito ai vari film sul Vietnam, e segnatamente a Il cacciatore o a Full metal jacket); quello che è in primo piano è uno scontro di valori, e se vogliamo di civiltà: quegli stessi valori americani di cui Hank è stato difensore integerrimo e cui ora è incrollabilmente fedele, al punto da fermarsi in auto a rimettere a posto una bandiera esposta rovesciata, e che sono messi in forte dubbio dalla dissennatezza della burocrazia militare, dall’assenza di una politica che è diventata un fatto privato e dalla dissolutezza di una gioventù che è costretta, dagli eventi e dagli ordini superiori, a gettare alle ortiche i propri ideali e i propri sogni guidando un blindato fra le baracche di una cittadina irachena al limite del deserto.

Con precisione chirurgica Haggis ci porta per mano attraverso un inferno fatto di divertimenti assassini e crudeltà gratuite vissute con una tale incoscienza da farcele apparire quasi normali, fino a un’immagine finale che, pure telefonata nelle scene precedenti, ci lascia con il groppo in gola e con un’afona richiesta di aiuto. È la civiltà occidentale ad essere minacciata, non solo da terroristi assassini, ma soprattutto dalle stesse forze interne che ne dovrebbero essere, invece, la punta di diamante; e persino i vecchi, anche se ancorati a ideali quali onore, fedeltà e lealtà, triti ma pur sempre colmi di generosa passione, sono costretti a chinare la testa sconsolati, in un lutto che è collettivo e senza soluzione.

Coerenti alla straordinaria sceneggiatura di Haggis, attenta ai punti di svolta hollywoodiani senza mai dimenticarsi della moralità del racconto, sono un Tommy Lee Jones assolutamente splendido nell’accorata e anacronistica difesa di un mondo scomparso, e un’irriconoscibile Charlize Theron, invecchiata, dimagrita (ma sempre bellissima) e incredibilmente in parte.

Doloroso in una compassata denuncia che insinua dubbi e domande angosciose rovesciando certezze precofenzionate, il film è, nonostante tutto, non completamente pessimista; è il titolo stesso che ci ispira questa sensazione, dato che cita il luogo dove vi fu lo scontro biblico fra Davide e Golia, la cui storia viene raccontata da Hank al figlio della detective come favola della buonanotte, quasi come un passaggio di consegne fra la burbera sicurezza dei vecchi e l’appassionata dedizione dei bambini, saltando a piè pari la “nostra” generazione, quella che dovrebbe difenderci. Un’apertura alla speranza nella desolazione dell’attualità. La possibilità di sconfiggere i “mostri”, esterni e soprattutto interni, grazie al coraggio e alla determinazione. Uno spiraglio, insomma: difficile da cogliere, ma importante da conoscere.

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