Una critica alla società del suo tempo
Possiamo guardare alla Ricotta di Pier Paolo Pasolini attraverso la lente d’ingrandimento che si utilizza per analizzare le opere d’arte figurativa, ovvero quella che condensa da una parte analisi iconografica e iconologica dall’altra. Dopotutto, sia per la formazione del regista (fu infatti allievo dello storico e critico dell’arte Roberto Longhi), sia per le suggestioni artistiche che ritroviamo nei suoi film (Rosso Fiorentino e del Pontorno nella Ricotta, ma anche negli altri le citazioni ci rimandano a Piero della Francesca, Masaccio, El Greco, Paolo Uccello, fino Bruegel il vecchio), la metodologia risulta appropriata.
Abbiamo allora un livello della rappresentazione che, sul piano iconografico, individua come segni la Passione di Cristo, una famiglia che soffre la fame, una compagnia di attori, un regista, la ricotta (simbolo di semplicità e rinascita), uno spazio, quello del set cinematografico, che diventa lo sfondo per la messa in scena di una sacra rappresentazione. Pasolini colloca le figure, anche grazie alle diverse modalità di ripresa, come se fossero disposte su una tela e dipinge la sua personale Passione di Cristo.
Poi c’è il livello iconologico, certo molto più complesso, perché serve a collegare le immagini nel loro significato simbolico e nel contesto storico di riferimento.
Siamo negli anni ’60, un periodo molto fortunato per il cinema, influenzato in parte dalla Nouvelle Vague (ma che in Italia non divenne mai una vera e propria scuola) e dallo sviluppo di nuovi linguaggi cinematografici, che includono Pasolini nei manuali di storia del cinema per il suo tentativo di attuare, a metà del decennio, una riflessione teorica e di produzione creativa alla sua proposta di un cinema di poesia.
Per Pasolini il cinema è, oltre che desiderio di cambiare lingua in segno di protesta contro quella italiana, la riproduzione tecnica del primo linguaggio umano, che è quello dell’azione dell’uomo che si rappresenta nella realtà. Le logiche neorealiste vengono superate attraverso un diverso approccio intellettuale, che mette in luce il processo di mutazione antropologica di una società trasformata nelle sue strutture più profonde dallo sviluppo tecnologico e dal consumismo. Il momento storico è quello di forti rivolgimenti sociali e culturali a livello planetario – tra gli altri, assistiamo all’attacco della classe operaia contro il sistema produttivo, alla nascita delle sinistre extraparlamentari e alle agitazioni studentesche. Furono anni di rivoluzione di costume, durante i quali vennero propugnati valori nuovi: dignità umana, antiautoritarismo, libertà di poter scegliere della propria vita.
In quel momento si delinea l’idea secondo la quale il contenuto delle opere d’arte, fondendosi con il loro contenuto critico, diventa la realtà in cui rivoluzione politica e artistica convergono sul piano del reale, affermando che la categoria estetica e quella politica sarebbero due facce della stessa medaglia. Siamo alla critica della società alla luce di un ideale rivoluzionario neo-marxista, non immune dall’influenza sociologica della Scuola di Francoforte; si tratta in definitiva di osservazioni sul potere e l’autorità che spingevano a guardare all’umanità del futuro come libera da ogni forma di potere alienante.
Fatta questa premessa, possiamo affermare che tutta la produzione artistica e intellettuale di Pasolini si colloca su questo piano e La Ricotta ne diventa un manifesto ideologico.
Sappiamo che la Ricotta è un mediometraggio di un film collettivo, così come per diverse esigenze si usava fare in quegli anni; ROGOPAG vede la partecipazione di Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti. Il filo conduttore è il condizionamento dell’uomo moderno nella società, con l’eccezione dell’episodio della Ricotta, che si occupa di uomini non ancora intrappolati nella gabbia del condizionamento. La fame di Stracci, il ladrone buono, rappresenta proprio questo: una disperata condizione, un lamento contro le abiezioni del mondo.
È la fame dell’uomo contemporaneo che cerca di trovare un significato profondo alla realtà svuotata di valori a causa dell’affermazione di un capitalismo piccoloborghese che Pasolini delinea come una nuova dittatura.
All’inizio della pellicola, tra i titoli di testa, appare la didascalia che anticipa il contenuto del film e riporta: quattro racconti di quattro autori che si limitano a raccontare allegramente la fine del mondo. Per Pasolini la fine del mondo è apocalisse culturale, la disgregazione dell’unità sociale, l’impossibilità di comprendere gli elementi simbolici e rituali, allontanando l’uomo dalla sua stessa identità. Proprio in questa sua idea ritroviamo la sua visione religiosa, non per la presenza di Dio, ma per la capacità di guardare al mondo secondo un principio di miracoloso (tutto è santo, dice Chirone a Giasone nella sua Medea). Siamo nel tempo della Dopo-Storia, del genocidio culturale e se un senso religioso ancora resiste è nelle periferie, ricche di forti valenze umane e letterarie
La periferia della Ricotta evidenzia la condizione degradata del sottoproletariato, ma anche la contrapposizione all’ideologia consumistica; le borgate sono i luoghi della diversità, del desiderio di riscatto, la dimensione in cui ogni individuo resta radicato alle tradizioni e alla natura. Le periferie per Pasolini sono gli ultimi avamposti della resistenza all’omologazione della società dei consumi.
Ma qui ci troviamo davanti a un set cinematografico dove, accanto ai sottoproletari, c’è la costruzione di una finzione cinematografica, un film nel film, un espediente che serve a mettere in discussione la percezione stessa della realtà. I piani si confondono, Stracci è veramente immagine del Cristo emarginato rispetto alla superficialità e alla decadenza morale della troupe televisiva che trasforma la Passione di Cristo in un prodotto commerciale.
Pasolini traduce il senso della contrapposizione tra il mondo reale della borgata e la finzione del cinema alternando riprese in bianco e nero e a colori. Ci troviamo davanti all’introduzione sulla scene dei due tableau vivants, la deposizione di Rosso Fiorentino e del Pontorno: immediato è il rimando alle pale d’altare, simboli di una storia perduta – arte nell’arte che qui si trasforma in una dissacrazione dell’evento sacro.
I quadri che sceglie fanno parte della pittura Manierista che ha tra i suoi connotati colori accesi, tinte brillanti e pose innaturali e forme contorte; manierismo significa anche qualcosa di negativo e positivo insieme, qualcosa che ha rappresentato una reazione alle coercitive regole classiche.
Il manierismo è estetizzante, cinico, miscredente: un linguaggio contaminato che si traduce in una poetica della perdizione e, in Pasolini, diventa medium per una critica alla società borghese. Due quadri viventi come simbolo di decadenza morale della società, della perdita di valori culturali e religiosi che trasformano la sacra rappresentazione in una recita forzata, accentuata dal birignao con il quale si declamano i versi del Pianto della Madonna di Jacopone da Todi, riportando nel film anche la finzione teatrale collegata, così com’era il teatro delle origini, alla dimensione del sacro e del culto collettivo.
Dai toni irrealistici del manierismo si passa alla realtà del bianco e nero che, come affermava André Bazin, trasfigura la realtà stilizzandola e rendendola evidente per sottrazione. Il bianco e nero per Pasolini è il colore della pittura del Trecento (i manuali di storia dell’arte erano stampati in bianco e nero), quindi di sacralità culturale che risiede nella bellezza e nella tradizione.
E tra tradizione e modernità si muovono i personaggi, accompagnati dalla musica che passa dalle composizioni medievali, Dies Irae associata al viaggio dei defunti, alla classicità della Traviata di Verdi snaturata, fino agli accenti beffardi della Ricotta Twist.
Su tutto la figura di Stracci, simbolo di fede cristiana, ma anche il simbolo della contrapposizione tra il sottoproletariato e l’emergere prepotente della borghesizzazione del proletariato stesso: siamo ideologicamente all’anticipazione dell’idea della scomparsa delle lucciole, all’omologazione culturale.
L’immagine di Stracci è quella di un corpo, simbolo dell’esistenza, offerto alla massa e messo a servizio di una lotta contro l’ipocrisia della società. Corpo che si rappresenta nella realtà, una lotta che afferma una verità religiosa divenuta culto capace di tramandarsi da oltre duemila anni: hoc est enim corpus meum. Il corpo di Stracci si offre al sacrificio e resta corpo estraneo in seno al decadimento della società borghese del suo tempo.
Un eterno sconfitto che si muove tra sacro e profano, tra una corsa alla ricerca di cibo (che ricorda per il flou dell’accelerato l’ironia amara del cinema muto di Chaplin) e il rifugiarsi in una caverna per consumare voracemente il suo pasto. Un antro che potrebbe essere equiparato al simbolico ventre della balena in cui finì per essere inghiottito il profeta Giona; luogo della morte simbolica e di una riflessione che non gli consente di riportare alla purezza delle origini gli abitanti di Ninive, cioè la società borghese e corrotta del suo tempo.
Allora quella caverna ricorda molto di più quella del mito di Platone, dove le immagini che si proiettano sulla parete, vale a dire gli attori che danno da mangiare a Stracci i resti dell’ultima cena, sono solo le ombre di un inganno, l’illusione di chi porta alla falsa conoscenza. Stracci si ritrova davanti a dei simulacri, uomini e donne senza più memoria del passato.
La società dell’edonismo non si vuole liberare dalle catene, preferendo il sacrificio dell’uomo sulla croce dell’omologazione e alienazione.
Stracci muore, questa è la sua personale rivoluzione; muore per ricordarci, così come dice il regista (Welles) dopo averlo invitato all’azione, che anche lui era vivo; l’unico modo nel quale ha manifestato il suo essere rivoluzionario.
Al cinico e sarcastico regista Pasolini affida le parole per la sua personale critica alla società e, recitando la poesia 10 giugno “io sono una forza del passato” (nella raccolta Poesie in forma di rosa), guarda alla grandezza del passato, della tradizione della cultura contadina e quel rudere sullo sfondo del set cinematografico esprime, insieme alla morte, il senso di caducità della vita. Il degrado culturale della società è sottolineato dalle parole del regista Welles: il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.
In tutto questo emergono, attraverso la figura del giornalista che intervista il regista, l’indifferenza, la vigliaccheria della società. Individui incapaci di impegnarsi nella costruzione di una società migliore. L’immagine dell’uomo medio diventa pericolosa, paragonato a un mostro, schiavista, un uomo senza qualità che tanto assomiglia a quel ritratto che Gramsci ne faceva nel 1917 nel suo Odio gli indifferenti.