El Alamein – La linea del fuoco

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Fronte egiziano, ottobre 1942. Dopo estenuanti combattimenti, la linea di demarcazione si è attestata a El Alamein, poco lontano da Alessandria. Il settore sud è occupato dalla divisione “Pavia”, impegnata da mesi in una logorante guerra di posizione contro un nemico invisibile che si fa sentire solo con frequenti bombardamenti aerei, e altri nemici molto più pressanti come la mancanza di cibo e acqua, la dissenteria, le malattie, il caldo torrido.
Alla postazione italiana giunge il giovane Serra, un volontario universitario, spinto in Africa dalla propaganda di regime. Si rende ben presto conto che la situazione è molto diversa da come gli era stata prospettata: il morale dei soldati è bassissimo, l’entusiasmo svanito, e per giunta accadono fatti tragicomici come l’arrivo, per errore, del cavallo che Mussolini dovrebbe montare alla parata susseguente la conquista di Alessandria. Durante una ricognizione nel deserto di Qattara, cui Serra partecipa insieme al sergente Rizzo, la postazione della “Pavia” viene bombardata e semidistrutta: è l’inizio della celebre battaglia di El Alamein, che durerà dieci giorni e sarà ricordata come una delle carneficine più cruente della seconda guerra mondiale.

La “Pavia” riceve l’ordine di ricongiungersi ad altri reparti del Corpo d’Armata Italiano ma, dopo la prima notte di assalti inglesi, l’unica cosa che rimane da fare è ritirarsi, verso una destinazione che viene cambiata di ora in ora, a seconda dell’avanzata del nemico.
La notte successiva, ciò che resta della “Pavia” (un manipolo di soldati allo sbando, alcuni feriti, senza armi né viveri) viene catturato dagli inglesi in un cimitero musulmano. Sfuggono alla cattura Serra, Rizzo e il tenente Fiore, che per superstizione avevano preferito dormire lontano dalle tombe. I tre continuano a camminare nel deserto, finché non avvistano un camion e una moto abbandonati. Rizzo rimane ad accudire il tenente, gravemente ferito, mentre Serra guida la moto verso gli avamposti italiani, promettendo un ritorno che non potrà avvenire.

Si poteva scegliere di raccontare la battaglia di El Alamein in molti modi; si poteva privilegiare l’eroismo, effettivamente riconosciuto dagli stessi inglesi, dei soldati italiani che si immolarono per difendere il fronte nel deserto; oppure si poteva scegliere una posizione per così dire “politica”, facendo assurgere El Alamein a simbolo della disfatta di un regime ottuso e liberticida; infine, si poteva raccontare la vicenda dal punto di vista dei “potenti”: Rommel da una parte, Montgomery dall’altra, e i comandanti italiani in mezzo. Monteleone sceglie invece una via più intimista, e decide perciò di narrare la vicenda di un gruppo di uomini semplici alle prese con la guerra, quella vera, vissuta sul campo e lontana dai riflettori della Storia, non quella decisa nelle stanze dei bottoni.
Basandosi su una documentazione rigorosa, ottenuta sia con la lettura dei molti testi sull’argomento sia con interviste a reduci di guerra, il regista confeziona così un film non anti-storico (come subito certi tromboni si sono affannati ad affermare), dato che i fatti narrati, anche quelli più marginali, sono effettivamente avvenuti, ma piuttosto anti-retorico fin dalla scelta di un cast composto non da “nomi” celebri, ma da “facce” comuni, rappresentative di quell’italiano medio che si è trovato immerso in una vicenda da cui è potuto uscire solo dando fondo alla propria dignità di uomo.
Monteleone azzecca la scommessa di raccontare la “morte brutta” che sta in fondo ad ogni guerra, stando nello strettissimo corridoio che scorre tra le banalità minimaliste e la prosopopea del cinema militante: recuperando una tradizione di cinema “medio” che ci è propria, riesce nel miracolo di far appassionare lo spettatore fino alla commozione e, nel contempo, di farlo riflettere.
Si esce dalla visione con la sottile convinzione di avere finalmente assistito a un film italiano che rischia persino di essere un capolavoro.

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