Nel 1915, i Giovani Turchi, ultima incarnazione della realtà ottomana ormai prossima alla fine, decisero di cancellare dalla faccia della terra il popolo armeno. Di religione cattolica, gli armeni si erano distinti per acutezza negli affari e capacità imprenditoriali, fino a divenire un centro di potere alternativo al governo centrale: una specie di lobby, come si direbbe oggi, ricca e unita. Con una meticolosità che si ritroverà poi, trent’anni più tardi, nello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti (e lo stesso Hitler si “ispirò”, per così dire, ai turchi di inizio secolo per pianificare l’olocausto), l’esercito turco strinse d’assedio città e paesi abitati in prevalenza da armeni e uccise senza pietà uomini, donne e bambini. A nulla valse la richiesta di aiuto alle altre potenze occidentali cattoliche: l’impegno nella Guerra Mondiale e un generale e cinico disinteresse verso il destino di quel popolo non salvarono gli armeni dallo sterminio. Solo pochi sopravvissero, scappando e rifacendosi una vita all’estero, mantenendo per sempre negli occhi l’orrore che avevano vissuto e nell’anima una sorta di atavico terrore verso i turchi. I quali, da parte loro, non ammisero mai di aver compiuto alcun tipo di atrocità, men che meno un genocidio: non c’erano televisioni a dimostrarlo, né fotografie. A poco a poco, del genocidio degli armeni si perse ogni traccia.
Atom Egoyan, regista canadese di origini armene, è il nipote di una sopravvissuta. Ha ascoltato queste storie fin da bambino, e da quando iniziò la professione di regista, vent’anni or sono, ha sperato di potere, un giorno, porre su pellicola le favole tragiche con cui era cresciuto. Dopo svariati film, dapprima sperimentali, poi di larga presa, è finalmente arrivato il momento che tanto attendeva. Ararat è il suo omaggio alla Storia dei vinti. Alle piccole vicende quotidiane che, unite, formano il grande fiume degli eventi, e che non si raccontano sui libri. Ad un popolo a cui è stata strappato ogni legame ancestrale, che ancora oggi non ha una patria, e vive in una sorta di insipida rassegnazione.
Egoyan, conscio di non poter raccontare in prima persona eventi così scottanti, sceglie la strada del “film nel film”: il protagonista di Ararat è un suo alter-ego, un regista canadese di origini armene che decide di girare un film sulle vicende della famiglia di Gorki, pittore armeno la cui madre morì nel genocidio, che ha lasciato come testamento spirituale il ritratto di se stesso a fianco della madre. Per meglio ambientare la vicenda, lo sceneggiatore si affida alla consulenza di una studiosa di Gorki, anch’essa di origini armene; questa si avvicina con gioia alla materia, nonostante i grossi problemi personali derivanti da una doppia vedovanza e dal rapporto difficile con il figlio (fidanzato con la sorellastra, che accusa la studiosa di averle ucciso il padre). Costui si appassiona alla vicenda del film, tanto da tornare in Turchia e girare autonomamente un filmato sui luoghi dello sterminio, come omaggio al padre, terrorista armeno ucciso dai servizi segreti. Di ritorno dalla Turchia, viene fermato alla dogana da un funzionario, che dimostra come nelle bobine non ci sia solo materiale filmico, bensì anche una partita di droga; ma che poi lascerà andare il ragazzo, forse sentendosi in colpa a causa dei problemi derivanti dal rapporto con il figlio, omosessuale fidanzato con uno dei protagonisti del film su Gorki.
Dall’intreccio, assai complicato, delle varie vicende, si evince già come la carne al fuoco sia davvero tanta. Troppa, oseremmo dire, per consentire ad Egoyan uno sviluppo men che circolare della vicenda, e per dargli la possibilità di seguire compiutamente tutte le vicende dei protagonisti. Ma se questo è il maggiore difetto della pellicola, bisogna dare atto ad Egoyan di un’encomiabile equidistanza dalla materia, che gli permette di costruire un film coinvolgente, dove drammi privati e drammi storici si sovrappongono fino ad annullarsi gli uni negli altri, e dove rimane sempre accesa la cenere di un passato che non si può dimenticare.
Gli scatti di una memoria da ricostruire, la necessità di ancoraggio esistenziale a motivazioni plausibili, il rapporto familiare come fonte di lutto invece che di gioia: ecco i temi centrali della pellicola, che Egoyan mantiene in miracoloso equilibrio senza esagerare in patetismi fuori luogo, ma anzi, raggelando le emozioni con la sua proverbiale freddezza di rito.
Un film anti-spettacolare, non perfettamente riuscito ma assolutamente da non perdere.