Ci sono dischi che suonano come la vita vera. Non la vita epica delle rockstar o quella patinata dei sogni in technicolor, ma quella che ti trovi addosso quando ti svegli la mattina con le bollette da pagare, un amore che non sai più se funziona e la voglia matta di scappare, anche solo per un’ora.
Questo è uno di quei dischi.
Jim Croce aveva l’aria del tipo normale: baffi, camicia sbottonata e una voce che sapeva raccontare senza fronzoli. Eppure, quando lo ascolti, senti che sta succedendo qualcosa di più profondo: ti sta parlando uno che ha visto le cose da vicino, ma che non si è mai montato la testa.
You Don’t Mess Around with Jim è uscito nel 1972, ma non suona affatto datato. È fatto di legno buono e strade polverose, di cabine telefoniche e occhi rossi di pianto. È il disco che ha fatto emergere Jim Croce dal sottobosco dei songwriter e l’ha messo sotto i riflettori, anche se per troppo poco tempo.
Ora te lo racconto, canzone per canzone, ma fai così: mentre leggi, immagina che stia girando il vinile.
Si parte col botto, con la title-track You Don’t Mess Around with Jim. Croce tira fuori una storia da bar, un racconto in musica alla Tom Waits ma senza il whisky, più da birra calda e occhiate storte. C’è Jim, uno tosto, uno che comanda a New York. Ma poi arriva Slim. E il finale… non ve lo spoilero. È il Croce narratore che si presenta al mondo: storie secche, dialoghi che paiono rubati da un film, ritmo folk con un piede nel blues. E il ritornello? È un proverbio di strada. Impossibile non canticchiarlo.
Tomorrow’s Gonna Be a Brighter Day è la speranza dopo la rissa. Un pezzo che ti dice: “Okay, è andata male, ma domani è un altro giorno.” Niente di zuccheroso, però. È una speranza consapevole, adulta. La voce di Croce qui è calda, sincera. Suona come una stretta di mano fra amici dopo una lunga notte.
Eccola, la prima pugnalata. In New York’s Not My Home Jim si guarda intorno e capisce che non appartiene a quel posto. Troppa gente, troppo cemento, troppa solitudine anche in mezzo alla folla. Una canzone che parla a chiunque si sia mai sentito fuori posto – ed è cantata con quella malinconia senza lamenti che solo i grandi riescono a trasmettere. Ci trovi Paul Simon, un po’ di Bob Dylan, d’accordo, ma alla fin fine è tutta farina del suo sacco.
Hard Time Losin’ Man è una scheggia, dura e breve. Sembra un pezzo di una jam session con i compagni di strada, ma sotto c’è la filosofia da autodidatta: quando va male, va male tutto. Ride per non piangere, e tu ridi con lui. È la rassegnazione divertita del loser che non molla mai.
Poi arriva Photographs and Memories. Qui si fa sul serio. È la ballata perfetta. Solo voce e chitarra, con Jim che si mette quasi a nudo. Parla di una donna, ma anche del tempo che scappa. Una malinconia che ti prende allo stomaco, senza mai diventare melodramma. Photographs and memories… chi non ha una scatola così da qualche parte?
Walkin’ Back to Georgia è una canzone di ritorno, un po’ come Bruce Springsteen quando canta dei binari che portano a casa. Georgia qui è più un’idea che un luogo: il bisogno di ricominciare, di ritrovare qualcosa che forse non c’è più. La melodia ha quella semplicità perfetta che solo i grandi riescono a scrivere senza sembrare banali.
Operator (That’s Not the Way It Feels) è una perla. Un uomo chiama un’operatrice telefonica per cercare la sua ex. Ma è tutta una scusa: vuole solo parlarne. È struggente, dolce, ma mai patetica. Jim ti mette in quella cabina con lui, con il cuore in frantumi e le parole che inciampano. Capolavoro assoluto: è storytelling puro, come I Heard it Through the Grapevine ma in punta di penna.
Time in a Bottle, se ti capita nel momento sbagliato, ti fa piangere senza pietà. Scritta per suo figlio, è una meditazione sul tempo, sull’amore, su tutto quello che vorremmo conservare e che invece ci sfugge. Quando è uscita come singolo, Jim era già morto in un incidente aereo. E tutto ha assunto un significato più profondo, quasi profetico. È la sua Yesterday, ma scritta per un domani in cui non sarebbe stato presente.
Con Rapid Roy (The Stock Car Boy) torniamo a correre. Qui c’è la gioia del racconto da bar, quello che rimbalza di bocca in bocca: Roy è un pazzo al volante, un fuoriclasse da pista. È un pezzo country-folk scatenato, da ascoltare col piede che batte sul pavimento. E sì, anche Roy, sotto sotto, è un tipo solitario.
Box #10 è una canzone breve, ma intensa. Racconta di chi arriva a Nashville per sfondare nella musica e si ritrova a dormire in una casella postale. Non è solo autobiografica, è universale: parla di sogni, fame, dignità. Jim non giudica, non si compiace: è così, e va raccontato per com’è.
A Long Time Ago è una ballata che sa di chitarre suonate sul portico, al tramonto. C’è il rimpianto, ma anche una sorta di dolce accettazione. Ricorda certe cose di Cat Stevens, ma più concreta, più vissuta. Jim canta come chi ha fatto pace con il passato, anche se qualche ferita brucia ancora.
Hey Tomorrow chiude il disco con un abbraccio. È un arrivederci, non un addio. Un messaggio al domani: “Non farmi troppo male”. È una canzone tenera, fragile e forte insieme. Perfetta per chiudere un album così umano.
You Don’t Mess Around with Jim è un disco che non grida per farsi ascoltare. Ti prende piano, con una chitarra, una voce vera e storie che sembrano rubate dalla tua stessa vita. Non c’è niente di artefatto, eppure tutto suona giusto.
Jim Croce non è stato solo un cantautore: è stato uno scrittore di novelle in tre minuti, che cantava per chi non aveva voce.
E se permetti a te stesso di entrare in questo disco, non ne esci più uguale.