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Genesis – The Lamb Lies Down on Broadway

The Lamb Lies Down on Broadway è uno di quei dischi, pochi in verità, che meriterebbero, separatamente, una recensione musicale e una letteraria, vista la complessità delle composizioni di musica e testi. Sarebbero recensioni lunghe e dettagliate, ma noi ci limiteremo a sottolineare ciò che rende quest’opera imperdibile, perché chi ama la musica non può non averlo nella sua discoteca.
Secondo concept del gruppo, dopo il disco d’esordio From Genesis to Revelation, l’album è un progetto ambizioso, e a tratti presuntuoso, quasi interamente dettato dal cantante Peter Gabriel, all’apice della sua creatività con il gruppo; un prodotto molto intimo e oscuro che fa da contraltare alla loro ultima produzione, quel Selling England by the Pound, tanto più dolce, sebbene musicalmente complesso, e tanto amato dai fan della band.

I testi raccontano di un giovane portoricano, Rael, che, dall’incontro a Broadway con un agnello sdraiato sulla strada, è trasportato in un mondo irreale in cui incontrerà vari personaggi e situazioni legati alla sua interiorità, come la paura, la morte, la famiglia, il sesso, perdendo e ritrovando un se stesso sconosciuto fino a quel momento.
Essendo i testi scritti in sostanza tutti da Gabriel, spesso il nome del protagonista della storia è stato accomunato con il frontman della band, e simbolo ormai inamovibile (Rael è contenuto nel nome Gabriel). Per molti l’interpretazione istintiva è stata quella di una sorta di trasposizione del cantante, o dei suoi desideri, nella lunga e complessa trama del concept (cosa che ritroveremo parzialmente poco più tardi in The Wall dei Pink Floyd, a opera di Roger Waters). Rael diventa così l’alter ego che definisce la fine e l’inizio del tutto: di un Gabriel che arriva alla fine della sua esperienza con i Genesis (lascerà il gruppo dopo l’estenuante tour, durato sei mesi ininterrotti) e di un cambiamento che seguirà la “fine” del periodo d’oro del Progressive rock. Ancora oggi il disco divide il pubblico tra chi lo definisce un capolavoro assoluto e chi invece lo considera un prodotto inutile e pomposo rispetto ai precedenti, ma proprio per questo merita un’attenzione particolare per la storia, i testi e la creatività letteraria del suo autore.

E gli altri? Musicalmente parlando, anche se le opinioni continuano a essere discordanti ancora oggi, il disco è il frutto della splendida evoluzione musicale dei cinque membri, che hanno dato dimostrazione, se mai ce ne fosse stato bisogno, di una creatività mai banale e di una qualità tecnica superlativa, con passaggi che hanno forse ridefinito il significato di Prog. Arricchito, a mio avviso, anche dal coraggio di cambiamenti inaspettati come l’uso del sintetizzatore da parte di Tony Banks, il basso più rockeggiante di Rutheford e alcune distorsioni “pesanti” della voce di Gabriel. Certo, il rischio di scoraggiare gli ascoltatori con quei novantaquattro minuti era consistente, ma loro erano i Genesis, già autori di cinque dischi tra cui capolavori come Foxtrot e Nursery Crime, e potevano decisamente permetterselo.
 Le tastiere di Banks danno inizio alla storia di Rael e ci accompagnano per tutto il disco con le sue tipiche variazioni, i mezzi toni gravosi che indicano i passaggi e i brevi assoli, sempre folgoranti. Forse qualche passaggio a vuoto c’è, ma in un’opera così complessa è comprensibile che le tastiere siano periferiche ogni tanto. In alcuni momenti è enorme (ad esempio nella title track e nella meravigliosa Carpet Crawlers).
La base ritmica è perfettamente al servizio dell’incedere del disco/racconto, con un Rutheford estremamente flessibile e differente dal suo standard (i momenti di basso metal non disturbano affatto, anzi, sono un valore aggiunto) e un Phil Collins che mette in mostra il meglio di sé (prima di perdersi nel pop e nel prosieguo via via sempre più commerciale dei Genesis).Steve Hackett non si discute, la sua chitarra sembra dotata, come in tutti gli album della band, d’intelligenza sua, ma è forse l’unico che qui non fa niente di trascendentale, come se il suo strumento fosse parte della sezione ritmica e si limitasse al semplice accompagnamento (anche se quella semplicità è memorabile nell’intro della bellissima Fly on a Windshield).

Se a Gabriel non concediamo l’assoluzione completa per la complessità del suo progetto scritto, di certo dal punto di vista vocale non gli si può criticare nulla: la sua voce e la sua capacità interpretativa sono valori aggiunti, e questo doppio album ne è la riprova. Inequivocabile marchio di fabbrica della band fino a questo disco, la sua voce potrebbe essere ascoltata sia dal punto di vista musicale che da quello narrativo, come lettore che racconta la storia di Rael, ed entusiasmarci in entrambi i casi. Anche dal punto di vista dell’immagine Gabriel è stato un innovatore, qualunque sia il giudizio: gli storici costumi usati durante il tour del disco, con cui interpretava i capitoli/canzoni della storia, sono entrati di diritto tra gli emblemi più significativi della storia dei Genesis.

Nonostante qualcuno abbia additato l’inferiore cura degli arrangiamenti e della produzione addebitandola al fatto che il gruppo era soggiogato dal delirio creativo di Gabriel, questo disco è da ricordare tra i migliori del periodo progressive e della musica in generale: un concept album che mescola deliri d’introspezione e di creazione musicale, di curiosità e d’interpretazione. Come capita spesso di dire per alcune pietre miliari della musica: forse non è un capolavoro per tutti, ma è decisamente vicino a esserlo.

I ventitré brani che compongono l’opera più che spiegati vanno ascoltati; ci limiteremo a ricordare quelli che più sono rimasti nel cuore dei fan, come l’iniziale The Lamb Lies Down on Broadway con l’intro di tastiera barocca, seguita da Fly on a Windshields, per passare a In the cage, in cui sempre le tastiere fanno percepire quasi materialmente il momento di ansia di Rael, catapultato in un mondo sconosciuto, e all’ipnotica Back in N.Y.C., con basso e tastiere in un connubio perfetto, nonché alle ineffabili Carpet crawlers – che diventerà presenza fissa nei concerti del gruppo – e The Lamia.

In definitiva The lamb lies down on Broadway è un disco da avere, da ascoltare tutto d’un fiato (spesso e volentieri) e che ha segnato la fine di un periodo magnifico per un gruppo tra i più rappresentativi della scena Progressive e non solo.

Come detto, dopo questo monumentale lavoro Gabriel lascerà il gruppo e se la sua presenza ingombrante ha definito la rottura tra i membri, ciò che ne è seguito spiega perché è accaduto: magnifici musicisti, i quattro restanti (poi tre, poi due) si sono persi al servizio di un fruttuoso pop, mentre Peter Gabriel ha prodotto album di indiscussa qualità musicale e di continua sperimentazione, rimettendosi in gioco ogni volta con coraggio e genialità.

Fiorenzo Dioni: Fiorenzo Dioni nasce a Brescia nel 1963. Progettista di professione, scrittore per passione, scrive da sempre, ma ha cominciato a pubblicare solo pochi anni fa. Ama scrivere racconti ispirati a situazioni quotidiane, dandogli poi una veste surreale e di fantasia. Ha pubblicato tre libri: “Porte”, composto da tre racconti lunghi, “Riflessi”, un progetto in collaborazione con una fotografa in cui si sono incontrate e confrontate immagini e parole, “L’uomo in scatola”, pubblicato da Calibano Editore, composto da 19 racconti surreali. Da uno di questi è stato tratto il fumetto “Mio padre, il tango” (Calibano, 2023). Ha partecipato a varie antologie di racconti a tema, tra cui “Anch’io. Storie di donne al limite”, “Ci sedemmo dalla parte del torto”, “Nulla per cui uccidere” (Prospero Editore), e “I racconti della Leonessa” (Calibano Editore). Altri suoi racconti sono stati pubblicati sulla rivista Inkroci, con cui collabora anche per recensioni di libri e dischi nelle rubriche “Attenti al libro!” e “Formidabili, quei dischi!”. In passato ha scritto recensioni per le riviste NB e Dentro Brescia.
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